Uno dei film con più nomination agli Oscar 2024, American Fiction, è stato distribuito senza preavviso su Prime Video. Si tratta dell’esordio alla regia di Cord Jefferson, già sceneggiatore della serie HBO Watchmen del 2019.
Jeffrey Wright è il protagonista di questa commedia che mette sotto l’occhio del microscopio l’ipocrisia editoriale statunitense odierna. Thelonious “Monk” Ellison è uno scrittore e docente universitario il cui modo di scrivere, la cui autorialità, viene considerata “troppo da bianco” dal suo agente, da colleghi, piuttosto che dai consumatori.
Monk è infatti un afroamericano originario di un contesto borghese, da sempre appassionato all’alta letteratura, in totale conflitto con quello che il pubblico cerca dai romanzi, almeno nel mondo filmico di American Fiction. Ciò che il mercato richiede sono storie stereotipiche sulla cultura afroamericana, che contengano rapine, sparatorie, spaccio, omicidi colposi e che utilizzino un linguaggio eccessivamente “black”.
La frustrazione del protagonista per la propria scarsa vendibilità lo conduce a scrivere “FUCK”, un romanzo volutamente sopra le righe, che parodizza l’immaginario “street” di cui sopra, un’opera letteraria provocatoria e trash.
Il film di Jefferson ha ben chiaro in mente il focus del proprio racconto: il mercato, in senso lato, da quello editoriale a quello cinematografico, richiede prodotti che facciano sentire l’uomo bianco privilegiato consapevole di certe tematiche sociali. Gli autori afroamericani qui passano come (d’altro canto vi è un fondo di amara verità) povere creature alla ricerca di metodi sempre più grotteschi per compiacere il pubblico bianco medio-alto borghese, che ha bisogno di sentirsi socialmente attivo. I fantomatici radical chic.
La costruzione satirica di American Fiction risulta tutto sommato valida, a partire dal titolo, evocativo e puntuale: “finzione americana” è la regola editoriale del 2024, intesa come finzione narrativa e socio-culturale, due sfere la cui veridicità è stata ormai deformata dal pubblico degli “Stupid White Men”, per citare il grande Michael Moore.
Ma, c’è un grosso ma, purtroppo American Fiction si sofferma su tante, troppe, sottotrame superflue, dall’omosessualità appena sbocciata del fratello di Monk (Sterling K. Brown) alla relazione sentimentale del protagonista, passando per il rapporto con la sorella e la madre. Quest’ultima è forse l’unica comprimaria della storia che ha senso di essere presente, siccome, la finzione, illusione di realtà, è quello che vede coi propri occhi, avvezzati dall’Alzheimer.
Per non soffermarsi poi, sull’altra grande nota dolente. Nel raccontare di una frangia editoriale trash, Cord Jefferson adotta una regia al limite della banalità, asettica per definizione. Come fosse una fiction televisiva nostrana di dubbia qualità. In conclusione, sebbene sia sgradevole fare di certi discorsi, American Fiction avrebbe avuto bisogno di un taglio importante, per arrivare a una durata di 90 minuti, così da privarlo degli aspetti irrilevanti.
Poiché è chiaro dal principio quale sia il vero punto di forza della sceneggiatura (dello stesso Jefferson): il conflitto tra un protagonista che non è ritenuto abbastanza nero e un ambiente artistico che, metaforicamente, indossa una blackface dall’inizio alla fine.