Wes Anderson sta attraversando il periodo più prolifico della sua carriera. Lo scorso 28 settembre la sua nuova ennesima fatica è stata distribuita in Italia: Asteroid city, presentata in concorso allo scorso Festival di Cannes.
Se The wonderful story of Henry Sugar a Venezia ci aveva fatto cadere le braccia, Asteroid city ce le riattacca con ago e filo.
Asteroid city è un racconto a cavallo tra poesia, teatro e cinema, con due piani narrativi, differenziati da rapporto d’immagine e colore/bianco e nero.
La realtà, intesa come spazio libero dagli strumenti demiurgici (cinepresa, macchina da scrivere) viene mostrata in un singolo momento: la prima inquadratura del film. Da lì in avanti Anderson ci costringe a vivere in uno spazio in cui i mezzi espressivi fanno da padroni.
La storia del film si espande in due direzioni parallele: la prima è quella di un drammaturgo interpretato da Edward Norton e del processo creativo che affronta partorendo la sua opera più ambiziosa: Asteroid city. La seconda storia del film, quella a colori, è la messa in scena dell’opera teatrale: la storia raccontata nella pièce teatrale è quella di una comunità di 87 abitanti nel bel mezzo del deserto statunitense nel 1955.
Un gruppo di ragazzini prodigio accompagnati dai genitori si ritrova nella piccola cittadina per ricevere un premio al merito scientifico per le proprie creazioni. Un contatto ravvicinato con una forma di vita aliena manderà in allarme la comunità.
Nelle due storie incontriamo spesse volte gli stessi attori, che interpretano loro stessi piuttosto che i loro personaggi in scena.
La parte a colori è andersoniana allo stato più autentico, il suo humor sopra le righe, la recitazione asettica degli interpreti e la preoccupante tendenza alla razionalità fungono come sempre da colonne portanti nella costruzione di Asteroid city.
Il segmento in bianco e nero del film è invece all’esatto opposto, più pacato nella messa in scena, minimalista in ogni senso. Si limita a voler riflettere sull’arte, e quanto questa invada lo spazio introspettivo e privato di chi la mette al mondo, piuttosto che di chi la interpreti su un palcoscenico/davanti a una macchina da presa.
In uno dei passaggi chiave del film, durante un confronto tra Edward Norton e alcuni studenti di drammaturgia, gli studenti iniziano a ripetere pedissequamente la stessa frase per più di dieci volte: non puoi svegliarti se prima non ti addormenti.
È come se Anderson stesse urlando quella frase a sé stesso, rimproverandosi. Il suo cinema è stato viziato per tanti anni da una messa in scena oltre ogni modo manieristica.
Le immagini iper saturate, la ricerca del vintage in abbigliamento e scenografia, la composizione dell’inquadratura costruita sull’asse di simmetria. Sono tutti elementi che hanno reso iconica l’estetica del regista, ma che lo hanno condotto a confezionare opere tecnicamente uniche ma che spesso dimenticando di raccontare qualcosa al pubblico.
Con Asteroid city Wes Anderson confeziona il proprio 8 ½, in cui decostruisce sé stesso e il proprio cinema. Augie, il protagonista del film interpretato da Jason Schwartzman, tra tutti il suo attore feticcio, passa l’intera storia a fotografare tutto quello che gli capita attorno, senza attribuirgli un vero peso. Fotografa la nube di fumo scaturita da un test atomico, piuttosto che l’avvenente Midge (Scarlett Johanson), perfino durante l’apparizione dell’alieno non può fare a meno di immortalare il momento.
Augie è Wes, in molti sensi. Wes spesso negli anni ha creato cinema solo per il gusto di farlo, senza attribuire un valore emotivo alle proprie opere. Asteroid city è manifesto della ribellione di Anderson. Verso chi? Verso sé stesso. E il risultato è glorioso.
Il teatro del drammaturgo di Asteroid city è il cinema di Anderson, che fa in maniera meta-testuale da veicolo per rappresentarlo, come un serpente che si morde la coda. Il risultato è stupefacente nella sua sincerità infantile, cosa che accompagna Anderson sin da Moonrise kingdom.