Avatar – La Via dell’Acqua al momento della stesura di questo articolo ha incassato circa 1.7 miliardi di dollari nel mondo, a fronte di un budget stimato tra i 350 e i 460 milioni di dollari, diventando il film più costoso della storia.
Secondo l’ormai celebre “regola del tre” per l’industria hollywoodiana un film può essere considerato un successo qualora riesca a incassare il triplo rispetto ai costi di produzione. Al netto di spese pubblicitarie esorbitanti, un prodotto come Avatar – La Via dell’Acqua inizia a generare profitto a partire dai 700 milioni.
Una cosa resta certa: con poco meno di 7 miliardi di dollari incassati con i suoi ultimi tre lungometraggi, non bisogna mai sfidare James Cameron al botteghino.
Con quasi due miliardi di dollari il nuovo capitolo del franchise targato Disney si conferma un trionfo. Giunti a questo punto sorge legittimo porsi una domanda: era davvero così scontato?
Il “Fenomeno Avatar”
Un’analisi di questo tipo deve essere ponderata estromettendo l’effettivo valore artistico del film. Senza girarci attorno, la qualità non è in grado di indirizzare categoricamente i risultati al botteghino di un’opera.
Il successo di questo nuovo capitolo dell’epopea di Jake Sully è dato da un marketing eccezionale quanto dal palesarsi della forza più romantica che il cinema è in grado di evocare.
Pensare al dicembre 2009 ha quasi il sapore di star fantasticando su una vita precedente. Appare così distante, sia sotto il piano temporale che sotto quello nostalgico.
Se paragonato a oggi, quel 2009 ci risulterebbe arcaico, sotto il profilo della comunicazione. Internet e le piattaforme streaming, unite dalle nuove frontiere dell’incomunicabilità umana, hanno stravolto il modo di vivere il cinema per le masse.
Anche il modo di vendere prodotti di intrattenimento si è gradualmente evoluto, fino a sintetizzare una nuova pelle.
Questo gap pluridecennale avrebbe potuto tagliar fuori innanzitutto un paio di generazioni.
Il successo del primo film ebbe un enorme impatto culturale, agguantando una fetta di popolazione infinitamente eterogenea in quanto a fasce d’età, etnie, religioni e provenienze geografiche.
Per qualche anno non si parlò d’altro, Pandora affondò le proprie radici nella cultura pop.
Il marketing di Avatar – La Via dell’Acqua è iniziato nel concreto un anno fa. Prima di allora non vi erano informazioni reperibili in rete.
Nel corso di dodici mesi magistralmente orchestrati dai pubblicitari di Disney, il mondo di Avatar è balenato nella mente collettiva dell’umanità. Basta davvero così poco per restaurare il legame tra un film e il suo pubblico?
Avatar è un’esperienza collettiva
Superficialmente, la risposta sarebbe “sì, è tutto qui.”, ma scendendo in profondità questa risposta breve cela in sé molte sfumature.
La pubblicità di questo film si è fatta da sola, in una lettura più “romantica” della situazione. Il primo capitolo della saga ha rappresentato per milioni di persone e soggettivamente per ognuno di noi la possibilità di guardare un mondo nuovo attraverso una finestra.
Critici e teorici della settima arte tendono a concordare da decenni sull’aforisma “il cinema deve essere una finestra sulla realtà.” Trascurando la componente surreale che il mezzo cinematografico offre.
Il mondo proposto da Cameron nel lontano 2009 ne è la dimostrazione concreta. Catapultare lo spettatore su un mondo nuovo è esattamente come regalare un biglietto aereo a una persona cara, spedendola dall’altra parte del mondo. Una sorpresa stravolgente in grado di farle lasciare tutto alle spalle per un breve lasso di tempo.
Avatar è un viaggio, fisico e spirituale, su Pandora. E solamente una sala gremita di spettatori in religioso silenzio può rendere possibile la magia. È l’esperienza collettiva ad amplificare il pathos.
Le tenebre che avvolgono la sala, i cento metri quadri dello schermo, solo queste caratteristiche apparentemente banali possono conferire dignità alle immagini, non c’è piattaforma che regga.
Se ancora oggi Avatar continua a rappresentare un punto di riferimento per gli spettatori è perché si fa forte di quella magia che solo il cinema è in grado di regalare: evadere dalla realtà, per quanto sia una fragile illusione.