Dieci anni dopo Mad Max: Fury Road, capolavoro assoluto della Storia del Cinema, il padre (ma non padrone purtroppo) di Mad Max torna a girare un capitolo della saga. George Miller gira il prequel incentrato sull’imperatrice Furiosa (in lingua originale dicono “imperator Furiosa”, al maschile), interpretata nel precedente capitolo della seria da Charlize Theron.
La sua controparte più giovane è qui interpretata da Anya Taylor-Joy. La somiglianza tra le due non c’è, in effetti, ma poco importa, perché il Furiosa di George Miller decide di reinventare, ancora una volta, la forma del suo film. Dimenticate l’adrenalina incessante di Fury Road, il rancido ritratto di una società post-apocalittica in cui l’unico potere dominante era quello patriarcale.
Mad Max: Fury Road e Furiosa: A Mad Max Saga sono due film diversi, con animi differenti, come due opere di pittori risalenti a epoche distanti. Se Fury Road è un quadro di Goya, Furiosa è un Botticelli, giusto per usare riferimenti lampanti. Sono due concezioni di magnificenza estetica differenti, eppure possono e devono convivere. Il primo, tenebroso e sporco di ruggine, il secondo mastodontico e “alleggerito” dal pessimismo del predecessore.
Sin dal 1979 la saga di Mad Max ha sempre mutato pelle di capitolo in capitolo. Fury Road reinventò il mondo di Mad Max, il tessuto sociale della terra sconsacrata raccontata nel film, che Miller inizia a denominare “Wasteland”, ovvero “terra devastata”, “terra sterile”, omaggiando T.S. Eliot.
Oggi, nel 2024, Furiosa ha la conformità di un film più articolato del suo linearissimo predecessore. Qui ci sono ellissi temporali, dinamiche di potere tra fazioni. Le “tre roccaforti” della Wasteland vengono approfondite, con sequenze d’azione mozzafiato non più ambientate soltanto lungo le strade, ma anche a Bullet Farm e Gastown, le due “cattedrali nel deserto”.
Il clamoroso film di George Miller, che ha sempre dichiaratamente amato Sergio Leone, questa volta è un western fatto e finito dall’inizio alla fine, che presenta tutti i canoni del genere, dalla vendetta scongiurata da un’epica disputa finale, una protagonista glaciale e silente à la Clint Eastwood, l’ombra di una guerra tra bande e fazioni.
Ma, in un genere storicamente americano-centrico e reazionario, Miller, australiano e progressista, continua, un decennio dopo, a raccontare l’odissea splendidamente femminista di Furiosa, che è “Imperator”, maschile, non “Imperatrix”, femminile. Che non è vista come possibile “moglie-riproduttrice” dal tiranno Immortan Joe (che nel precedente capitolo passava per un Barbablù post-apocalittico), poiché “maschiaccio”, poiché pollice nero (“operaio” nel gergo di Mad Max).
Furiosa è vista come un “braccio” dalla società maschilista, che oggettifica le donne, in cui vive. D’altro canto, Furiosa non ha il braccio sinistro, e da sempre George Miller ama esprimersi attraverso immagini e simbologie.
Il film si apre con la piccola Furiosa che coglie una mela da un albero, in quella che è l’ultima zona verde rimasta nella Wasteland. La mela dell’Eden rubata dal giardino di dio. Ma in una terra senza dio, il furto della mela proibita, avrà comunque una conseguenza? Chi scaglierà la propria vendetta sulla peccatrice? L’uomo, ovviamente. L’uomo di sesso maschile.
In una terra senza dio gli uomini si sostituiscono a lui. La soluzione? Una donna, ritenuta troppo poco donna, dividerà il frutto proibito con altre cinque donne, pianificando una fuga notturna dalle grinfie di Barbablù, dalle grinfie degli abusi di una società malata. Ed eccoci tornati a Fury Road.
Correte a vederlo.