La saga del Pianeta delle Scimmie ha trovato una seconda pelle con il reboot cinematografico iniziato nel 2009 con L’alba del pianeta delle scimmie, ridefinendo le origini della saga partendo dal “giorno uno” dell’epidemia che rese le scimmie la specie dominante.
Con i due seguiti, che andranno a formare la Nuova Trilogia del Pianeta delle Scimmie, il franchise targato Fox ha affondato le proprie radici in un terreno fino ad allora inesplorato, quello di un approccio più adulto. Affidare la direzione artistica del progetto a Matt Reeves (che subito dopo girerà The Batman per la Warner) ha reso per la prima volta i film della serie dei veri blockbuster d’autore, anticipando anche molti temi che l’ottimo regista newyorkese riprenderà nel suo adattamento del Cavaliere Oscuro.
Chiusa la trilogia, sette anni dopo arriva Il regno del pianeta delle scimmie, che porta avanti l’universo narrativo che fino a questo momento era stato condotto da Cesare (Andy Serkis) lungo il percorso dei tre film. Il film si apre proprio con il funerale di quest’ultimo, per poi proiettarsi diversi decenni più avanti con un’ellissi temporale.
La dichiarazione d’intenti è lampante, morto Cesare, non se ne farà un altro. E infatti, malauguratamente, questo quarto film del nuovo ciclo torna indietro sui suoi stessi presupposti, risultando un prodotto “young-adult”, come direbbero oltreoceano, ovvero un film per pre-adolescenti.
D’altro canto, la regia è stata affidata a Wes Ball, nome che non dice niente a nessuno. Questo perché viene dalla trilogia (ripugnante) di Maze Runner, tratta dagli omonimi best-seller, titoli che facevano affidamento al target di pubblico di cui sopra.
All’atto pratico, in due ore e mezzo di presentazione del mondo ormai dominato dai primati (proprio come ai tempi del primissimo film del 1967), si fa fatica a ricordare nomi, personalità e ruoli delle scimmie protagoniste. Questo a partire dal design degli scimpanzé in computer-grafica, che sono identiche alle protagoniste dei tre film precedenti, scelta di un pressapochismo imbarazzante.
L’antagonista del film, un babbuino ossessionato dall’Impero Romano, è centrale giusto di una manciata di scene (più “scenette” a onor del vero), per di più venendo presentato a metà film. Siamo su un altro pianeta rispetto a Furiosa, in cui Anya Taylor Joy entra in scena dopo quasi novanta minuti, riuscendo comunque a divorare lo schermo.
Il limite più grande de Il regno del pianeta delle scimmie, è anche il più ridicolo dei paradossi. Le scimmie, fino a questo momento più umane degli umani, sembrano essere regredite, nonostante il salto temporale di “molte generazioni” rispetto al tempo di Cesare. I pochi personaggi umani riescono finalmente a rilegittimare le proprie capacità strategiche e di sopravvivenza, a differenza dei confusissimi primati.
L’unico, se così vogliamo inquadrarlo, aspetto vagamente intrigante sta nella scelta degli sceneggiatori di mostrare un antagonista che, didascalicamente, incarna il modo di relazionarsi agli elettori/sudditi di Donald Trump. Proximus Ceasar, questo il suo nome, travisa la “filosofia” del Cesare della trilogia di Matt Reeves, da buon populista, al fine di edificare un culto della personalità.
Volendo essere noiosi però, lo stesso Mad Max: Fury Road, dieci anni fa, poco prima delle elezioni del 2016, aveva già proposto il modello del villain-trumpiano con Immortan Joe, tiranno che rilegittima l’odio come virtù del proprio popolo. Differenze.