La nona regia di finzione di Francesca Comencini, Il tempo che ci vuole, rende omaggio a suo padre, Luigi, tra i padri della commedia all’italiana. Uno di quei maestri disposti a stare sul set fino alla fine, al punto da volerci quasi morire, dietro alla macchina da presa. Si parla anche di questo, nel film di Francesca, classe 1961. Francesca e Luigi, padre e figlia, commedia all’italiana contro post-nouvelle vague, nazionalpopolare contro intimismo, boomers contro greatest generation: maschile contro femminile.
Perché ti piace Lucignolo?
Il primo atto del film si incentra sulla lavorazione de Le avventure di Pinocchio, sceneggiato Rai di Luigi Comencini, e di come le peripezie sul set combacino perfettamente con le scene di vita quotidiana di Luigi e Francesca. Lui, all’inizio del film le chiede chi sia il suo personaggio preferito di Pinocchio, lei gli fa il nome di Lucignolo. Forse, il più grande limite de Il tempo che ci vuole, sta proprio nell’utilizzo, che vorrebbe essere furbo, senza però esserlo, delle figure del romanzo di formazione di Collodi.
Che la Francesca (adulta) protagonista del film si sia perduta in cerca del suo Paese dei Balocchi, è chiaro come il sole. Da bambina invece, è terrorizzata dal pescecane, sebbene il suo personaggio preferito sia Lucignolo. Come se la giovane protagonista fosse attratta dalla mistificazione, dall’infantilismo, del giovane amico di Pinocchio, senza però avere il coraggio di affrontare il mostro, passaggio chiave per tornare alla normalità, nel romanzo collodiano.
Le punte di didascalismo, nel film di Francesca Comencini, non aiutano di certo la minestra a insaporirsi, anzi, quella frustrante scoperta di un sapore insipido, dopo il primo boccone, resta. Arrivare alla fine della minestra controvoglia è più uno sforzo che altro.
In assoluto, il racconto emotivo di una ragazza interrotta, salvata da papà – compagno di giochi e mentore – non arriva fino in fondo, perdendosi in discorsi eccessivamente drastici, senza un apparente motivo, e soffermandosi su concetti chiave della storia da far “passare a tutti i costi allo spettatore”. Certi concetti dunque, finiscono col diventare enormi disclaimer, nel caso in cui qualcuno non fosse riuscito a capire esplicitamente qual è il senso del film.
Se dovessimo identificare una forza, ne Il tempo che ci vuole, questa, sarebbe facile da identificare nel confronto, generazionale e di genere, tra papà e figlia registi.
Generazioni a confronto
Papà Luigi viene da una generazione (quella dei vari Germi, Monicelli, Steno) che intendeva il cinema come mezzo espressivo intrinsecamente legato all’industria, ai budget medio-alti, ai cast dalle voci grosse. Un cinema, quello di Comencini al maschile, destinato al grande pubblico, che, in un certo senso, tenesse chiuse sotto chiave le personalità dei suoi autori. Maestri del genere, inibiti al solo pensiero di mettere “loro stessi”, la loro emotività, nel proprio cinema.
Francesca, figlia, nel 1978, dopo l’omicidio Moro, si perde nel vortice della dipendenza da eroina. Vive all’ombra della figura paterna, della rigidità di papà Luigi, della sua totale passività (tipica della borghesia romana dell’epoca) rispetto agli eventi che stanno scuotendo una nazione. Un’identità. Senza rendersene conto, sua figlia, in quella crisi di valori, rispecchia sé stessa. Comencini al femminile, nell’avvicinarsi al cinema, identifica la propria identità di narratrice, seguendo un percorso agli antipodi da quello di papà, che ormai da anni gira anche sceneggiati televisivi per la Rai (Marcellino pane e vino, Le avventure di Pinocchio).
Nel raccontare le divergenze, creative ed esistenziali, di due generazioni separate da quasi mezzo secolo, Francesca Comencini riesce con inaspettata lucidità a evidenziare ogni archetipo di ciascuna corrente, raffrontandoli tra loro, come fosse una sottrazione in colonna. Il risultato, la differenza, equivale alla distanza, espressa in lacune emotive, che separa padre e figlia, non più generazione e generazione, maschio e femmina, commerciale e autoriale.
Il Comencini interpretato da Fabrizio Gifuni, durante un duro confronto con la figlia, riesce a riacquisire la lucidità, spiegandole che: “Io a te adesso non ti lascio più”, creando se vogliamo, un meccanismo di rottura, tra un uomo del primo novecento, silenzioso, passivo e a tratti burbero, nei confronti di una ragazza che vive alla luce del sole, incapace a nascondere le proprie fragilità.
In un certo senso, tutto si esprime attraverso uno scambio, durante il quale Francesca accusa Luigi di essere “soltanto un corpo”. Corpo, per autori e autrici che ereditano le lezioni della Nuovelle Vague negli anni ’60, è una parola chiave. Corpo è ciò che interessa agli autori europei, in senso lato. Ciò che interessa ai Comencini, Germi, Monicelli, sono le emozioni, riassunte per sommi capi, in un’idea di messa in scena e scrittura, che vuole farsi universale, di facile lettura.