Nella giornata di venerdì 21 giugno, Chloë Delanghe e Mattijs Driesen, registi di Hexham Heads (qui la recensione) ci hanno concesso una lunga intervista subito dopo aver ricevuto la notizia di aver vinto due premi alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro.
Hexham Heads ha ricevuto il premio della giuria studenti, oltre al premio assegnato dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici: è il film più premiato della manifestazione insieme ad A Fidai Film di Kamal Aljafari.
Quanto segue, è un viaggio attraverso i pensieri e le visioni del mondo di questi splendidi artisti, non è imprescindibile aver visto il film per godere di questo contenuto.
Le domande sono riportate in corsivo; le risposte di ChloëDelanghe sono contrassegnate dalla lettera C, quelle di Driesen dalla M.
Buona lettura.
Inizierei col congratularmi con voi. Avete vinto il premio al miglior film al Pesaro Film Festival, assegnato da una giuria composta da studenti di cinema. In un concorso di cinema sperimentale voi avete deciso di presentare un film di genere, un horror. Come ci si sente?
C – Sapere che il pubblico apprezzi un genere così implicitamente politico ci rende molto felici. L’horror è come un contenitore all’interno del quale poter raccontare tante storie senza dire necessariamente tutto. Non ci aspettavamo di vincere, grazie.
M– Quando cerchi di farti spazio in un mondo, in un’arte, ricevi sempre molti rifiuti. A un certo punto arriva il momento di dire: “Sai cosa? Non me ne importa”. Però poi, quando il tuo lavoro viene riconosciuto, come in questo caso, ti si scioglie il cuore. Fai fatica a spiegartelo. La verità è che ci tieni così tanto da diventare vulnerabile in un certo senso. Questo perché se da una parte hai molte cose da dire riguardo il cinema (e attraverso il cinema), dall’altra c’è un sogno, così innocente. È magico, ti si scioglie il cuore.
Nel corso del dibattito al termine della proiezione ho sentito che tu Chloësei più vicina alla fotografia e alle arti visive, mentre Mattijs si occupa di cinema. In che modo avete cercato di far coesistere queste due forme di linguaggio audiovisivo all’interno dello stesso prodotto, della stessa storia?
C– Anch’io ho girato dei film, prima di Hexham Heads, seppur brevi, dai 6 ai 15 minuti di durata. Ragiono spesso su come la fotografia influenzi le immagini in movimento. Credo che ci sia movimento nella staticità e viceversa, staticità nel movimento. Mi rifaccio a questa idea, quando creo immagini. Io e Mattijs siamo amici da molto tempo, nel corso del quale abbiamo fatto tante maratone di film horror, in generale nel corso degli anni siamo sempre andati al cinema in cerca di qualcosa che avesse elementi horror in sé. È però grazie alle tante conversazioni avute che siamo riusciti a comprendere l’una le visioni dell’altro.
M– Sì, credo sia questo. Siamo accomunati dall’amore per il cinema, ma soprattutto credo che condividiamo le stesse preoccupazioni per quanto concerne il valore delle immagini, su cosa vuol dire vivere in relazione a esse oggi. Per il resto, non credo che il nostro film sia esplicitamente “politico” (mima le virgolette con le dita [n.d.r.]), ma siamo entrambi d’accordo sul fatto che ci sia un dibattito in merito. Amiamo l’horror e ci interessa fare cinema dell’orrore, credo che condividiamo anche la stessa opinione su…
C– …sulla politica dell’immagine. Su cosa significa ritrarre volti, persone, ma anche quello che avviene negli spazi domestici. Quando queste storie vengono portate fuori dal privato, all’esterno, possono suscitare qualcosa, possono comunicare.
M– E per quanto riguarda l’avventura dietro lo sviluppo di un proprio lavoro, c’è da dire che è sempre una battaglia realizzare un film. La collaborazione tra noi due forse è nata da una forte fiducia che riponevamo reciprocamente nel progetto. Anche soltanto essere lì a girare qualcosa insieme, a prescindere da tutto, era piacevole. Nei miei momenti di crisi, Chloëprendeva le redini del progetto e viceversa.
Sapevamo entrambi di voler realizzare questo progetto. Spero che questo possa rispondere alla tua domanda (ridono entrambi [n.d.r.]).
C– Se posso aggiungere, abbiamo approcci radicalmente opposti all’estetica. Anche se amo molto il modo in cui Mattijs osserva il mondo. Credo sia così anche per lui. Il film unisce le nostre due visioni del mondo in un certo senso.
M– Voglio sempre tenere tutto sotto controllo, guardare tutto quello che ho attorno simultaneamente, quando giro un film. Credo che il nostro Hexham Heads lo testimoni: c’è sì molta stasi, ma anche tanto movimento, tanta “esplorazione”.
C– Credo che Mattijs abbia un’attenzione spasmodica quando siamo sul set.
Sì, in effetti l’ho notato. In Hexham Heads convivono momenti di intimità, dettagli e inquadrature larghe, totali. In un certo senso raccontano la convivenza di queste due modalità di osservare il mondo.
Avete girato il film in 16mm, giusto?
C– Sì, in 16mm, mentre i fotogrammi fissi sono stati girati in medio formato. Abbiamo inserito nel film anche riprese in VHS. Sono video di me e la mia famiglia girati da mio padre quando eravamo bambini. È stata un’idea di Mattijs (ride [n.d.r.]).
M– Sì, mi piacciono molto le riprese del padre di Chloë. Credo sia un grande artista, un genio mai riconosciuto purtroppo. Mi sono detto: “D’accordo, faremo un film di finzione e per farlo useremo nostri filmati”. Sono immagini molto personali per Chloë, anche se credo sia stato in un certo senso “invadente” da parte mia chiederle di prestare al film immagini così dolci appartenenti suo passato, rendendole parte di qualcos’altro.
C– Ti racconto un aneddoto. Nel film c’è un’inquadratura che ritrae dei bambini nella loro camera da letto, con una musica tenue in sottofondo. Quella scena è stata montata da Mattijs in un giorno in cui sono dovuta andar via in anticipo, mentre lavoravamo al montaggio. Quando sono tornata il giorno seguente a lavoro, Mattijs me l’ha mostrata: era una ripresa della mia infanzia. Vederla sotto una nuova luce mi ha commossa, ho iniziato a piangere. Ero scioccata. Vedere un luogo della mia infanzia, una cosa per me “normale” trapiantata nel film è stato sconvolgente, perverso quasi. Credo che riassuma cosa si può fare sfruttando i meccanismi dell’horror. C’è una linea sottile che determina se un’immagine può risultare perversa o premurosa. È davvero facile sfruttare questo meccanismo.
M– La fiducia è stata importante durante questo processo di manipolazione di immagini così private per Chloë.
Questa è una domanda che amo porre a tutti i registi con cui parlo. Molti di noi filmmaker hanno un film in particolare che gli ha insegnato tanto, da un punto divista registico, per me forse è Il Mago di Oz. Voi avete un film di riferimento che, diciamo così, vi ha “indicato la retta via”?
M– Non mi sento a mio agio con la risposta che sto per dare. Si tratta dei documentari del maestro del cinema cinese Wang Bing, credo sia uno dei migliori registi viventi. In particolare ‘Til madness do us part (2013). Lo vidi a scuola.
Ha una maniera fisica di filmare ciò che osserva. Documenta ciò che ha attorno, osserva. Ciononostante avverti sempre la presenza della sua cinepresa (quindi la sua presenza). Rispetto molto quello che fa. Documenta i paradossi della realtà sociopolitica del suo paese attraverso il suo cinema.
Mi sento in colpa guardando ‘Till madness do us part, perché apprezzo la regia di Wang Bing, mi concentro su quell’aspetto, ignorando il contenuto dei film. Il suo lavoro non mi lascia mai in un certo senso, anche se non ho ancora capito cosa ami della sua idea di cinema nel profondo.
C– In verità Mattijs ha anche scritto un articolo su Wang Bing, puoi trovarlo online.
Tocca a te Chloë. Nomina un film che ti ha insegnato tanto registicamente.
C– Ho visto molti film di David Lynch da ragazza. A un certo punto sono uscita dalla “fase Lynch”, ma ultimamente ci sono tornata e mi sento “più intelligente” nel modo che ho di leggere i suoi film. Da ragazzina spesso fai finta di aver compreso il significato di alcuni simboli o delle scelte cromatiche che Lynch fa. Da adulta ho realizzato quanto il confine tra finzione e realtà si assottigli nel suo cinema.
Inoltre la sua ossessione per la violenza, sempre così “premurosa” mi arriva molto. Amo il ragionamento che porta avanti in merito alle proporzioni e alle grandezze (micro-macro thing that he does) con le immagini. Credo di aver assorbito questa lezione, è una cosa che faccio spesso nel mio lavoro, avvicinarmi troppo, per poi allontanarmi, una sorta di parallasse. Non riuscirei a scegliere uno solo dei suoi film, perciò ti dico Velluto blu e Cuore selvaggio.
Dopodiché voglio citare un film più “socialmente accettabile”, Portrait of Jason (1967) di Shirley Clarke. Credo sia un grande racconto di comunicazione tra chi è davanti alla cinepresa e chi riprende, su come il potere si sposti da una parte all’altra. In quanto fotografa sono costantemente tenuta a confrontarmi con la gerarchia che si crea tra fotografa e modello/a.
Il tema del festival è quello del cosiddetto “nuovo cinema”. Nel corso di questi giorni abbiamo discusso molto su cosa si possa intendere per nuovo cinema. Ci troviamo in un momento storico in cui i film incassano tendenzialmente poco e gli spettatori hanno iniziato a distaccarsi dal cinema come mezzo espressivo.
Credo che non ci sia realmente bisogno di cercare un “nuovo cinema”, un’evoluzione. Il cinema ha bisogno di reinventarsi, di lavorare sulla forma più che sul contenuto. Voi cosa pensate, cosa si intende per “nuovo cinema”, c’è bisogno di evoluzione e sperimentazione a tutti i costi o di ricodificare, reinventare il “vecchio cinema”?
M– Cavolo, questa è un’ottima domanda. Domanda enorme.
Credo che sia necessario riconsiderare la questione del “nuovo cinema” rispetto all’oggi, al presente. Dal mio limitato punto di vista la “novità” viene dall’avantgarde ed è sconvolgente pensare che l’innovazione risieda ancora oggi in un movimento artistico di un secolo fa.
Ma è così: l’avantgarde è ancora oggi fresco, nuovo. Stiamo ancora cogliendo i frutti di quel momento della storia del cinema. La percezione che la gente ha del “nuovo” è stata viziata anche da realtà quali la Silicon Valley, per fare un esempio: la novità non è altro quello di cui tutti quanti parlano (o sentono parlare). Ogni programma di montaggio si aggiorna ogni sei mesi e non sai neanche in cosa si è aggiornato. Tutto quello che ci circonda vive un costante processo di rinnovamento. In un certo senso c’è la sensazione che stiamo dimenticando quello che ci siamo lasciati alle spalle, non tanto il XX secolo, quanto più ciò che è venuto prima.
Forse lo consideriamo troppo vecchio. O forse cerchiamo di conferirgli un’aura negativa e credo che questo sia un atteggiamento sbagliato. Poiché il passato paradossalmente è il futuro. I giovani non sono il futuro, gli anziani lo sono, poiché stanno andando in quella direzione. I giovani possono vedere il futuro negli anziani. Ho l’impressione che sia un’eredità della Nouvelle Vague, parlando di cinema. C’era molta tensione tra nuove e vecchie generazioni all’epoca. È esattamente come accade oggi rispetto al dibattito sui cambiamenti climatici: i giovani sono in prima linea, quando in realtà è una responsabilità degli adulti, dovrebbero essere loro a occuparsene. Credo sia questa la risposta alla “domanda sul nuovo”, ma tornando al cinema… il cinema è un’arte del XX secolo, era una novità all’epoca, ora non più. È doloroso per i registi che vogliono riconoscimenti, successo, accettare il fatto che l’audiovisivo non è più il linguaggio più popolare al mondo. Oggi è TikTok a occupare quel posto.
L’audiovisivo è cambiato troppo, non puoi tornare indietro, non puoi tornare ai vecchi fasti di Hollywood. Ma fa parte del naturale processo evolutivo: la pittura era spaventata dalla fotografia, la fotografia dal cinema. Ciò che conta è avere fede, credere in quel che si vuole fare. Spesso però penso al fatto che Hollywood in particolare metta in dubbio sé stessa: “Siamo ancora rilevanti? Incassiamo abbastanza?”. Non è la domanda giusta da porsi, il cinema dovrebbe essere più umile.
C– Se senti la l’urgenza impellente di raccontare qualcosa, allora è rilevante.
Quando ero all’università un giorno un ragazzo venne da me e mi chiese: “Qual è la tua ossessione”, mi sembrò molto ambiguo sul momento, ma quella domanda è sempre rimasta con me. Ovviamente sono ossessionata da quello che faccio. Quando lo sei per davvero devi correre dietro alle tue ossessioni. Che si tratti della narrazione che vuoi apportare alle storie o dell’estetica che hai intenzione di adottare. Qualsiasi cosa. Devi seguirle.
M– Se posso aggiungere, amo il cinema, con tutto me stesso. Ma in un certo senso l’arroganza di chi lo fa ci ha portato a credere che sia superiore ad altri medium. La verità è che ha fallito miseramente.
Con l’Avantgarde e la Nouvelle Vague si pensava che il cinema potesse cambiare il mondo, ma non ci è riuscito. Non sto dicendo che sia impossibile cambiare il mondo facendo cinema, dico solo che siamo stati arroganti nell’aver considerato le altre forme d’arti come “minori” o “meno speciali”. Il cinema è un’arte meravigliosa e non merita di essere intellettualizzata in questo modo. Forse anche i tiktoker oggi pensano di poter cambiare il mondo, anche la loro è arroganza. L’arte è fragile, non è brava a difendere sé stessa. Vuoi esprimerti artisticamente e non sai neanche il perché? Ciò che conta è generare profitto, ammazzare chi ti trovi davanti, essere arrivisti insomma. Ci si sofferma su questo.
L’arte in realtà è interessata unicamente alla propria affermazione, niente di più.
C- Credo che i migliori registi siano quelli maggiormente informati sulle altre arti, dall’architettura alla pittura, al saper analizzare il modo in cui le persone si muovono o si esprimono.
Non puoi fare arte senza guardare all’umanità in tutte le sue sfaccettature.
C– Non puoi concepire film guardando soltanto a te stesso, devi guardare fuori.
M– Esatto, non puoi soltanto rifarti al cinema o all’arte. Devi guardare al mondo esterno. È una cosa con la quale devi scendere a compromessi.
Hexham Heads spinge molto sulla sua splendida colonna sonora. Quanto è importante per voi la musica nei vostri progetti e cosa sperate di comunicare attraverso di essa?
C– Come sai la colonna sonora è frutto di una collaborazione ravvicinata con il mio partner, il compositore irlandese Sam Comerford. Fa principalmente jazz e musica tradizionale irlandese. La casa in cui è ambientato Hexham Heads ci ricordava il linguaggio che usa Sam con la sua musica.
È stato difficile, né Mattijs né io siamo musicisti, così abbiamo cercato di capire cosa volessimo, cercare di esprimerlo attraverso indicazioni concrete. Spesso partivamo con descrizioni astratte di stati d’animo, poi Sam ci interrompeva e chiedeva: “Sì, ma cosa intendi? Cosa volete di preciso?” (ride [n.d.r.]).
Nessuno di noi due aveva mai lavorato con un compositore prima. Personalmente avevo paura che la musica superasse le immagini (…It would outplay the images). Ma grazie al rapporto così profondo che abbiamo siamo stati in grado di prendere insieme ogni decisione. Sono molto fiera del risultato.
M– È vero, è la prima volta che lavoriamo con un compositore. In un certo senso le riprese che abbiamo fatto sono state le più “astratte” che abbiamo mai girato: sembra che ci siano molte presenze nel film (nonostante non si vedano personaggi fino all’ultima scena [n.d.r.]). Sam ci ha mandato molti brani provvisori/demo, in modo che potessimo già provare a montarle.
Ci sono molte scene nel film che hanno assunto un significato interpretativo diverso, una volta montate con le musiche di Sam. Ad esempio, nel film c’è una scena in cui osserviamo delle rovine e la musica di sottofondo è così dolce, leggera. Nella nostra testa la scena avverrebbe avuto un impatto completamente diverso, ma la colonna sonora ha cambiato tutto.
C– La fluidità delle musiche di Sam in un certo senso ha permesso loro di evolversi attraverso il processo di montaggio. Ricordo che quando Sam mi ha fatto ascoltare il tema d’apertura del film non era soddisfatto del risultato. Poi però ho provato a montare quella musica in sottofondo alla scena iniziale del film: era perfetta, avevamo il tema.
Sì, la sua musica aggiunge un livello di lettura diverso al film ed è organico.
Hexham Heads è anche un film pieno di cinefilia. L’altro giorno durante il Q&A in sala è stato paragonato ad Halloween di John Carpenter. A me ha ricordato però un altro film, meno conosciuto, di Carpenter, Il signore del male, che è ambientato in un unico spazio chiuso.
Nel suo film si ha la costante impressione di essere circondati dal “nemico”, che diventa quasi un’entità. Nel vostro film si respira esattamente la stessa aria, non vediamo mai soggetti umani se non alla fine. Non sai di cosa aver paura perché l’oscurità è tutta intorno a te. In un certo senso il vostro film mi fa pensare che forse il vero elemento del quale aver paura sia la solitudine stessa. Come se la casa in cui è ambientato HexhamHeads la accolga.
Qual è secondo voi il rapporto che si va a creare tra il pubblico e una casa vuota, in un film horror?
C– Mi prendo qualche secondo per pensarci, è una bella domanda.
M– Il signore del male è un film stupendo. E per la cronaca, credo che John Carpenter odierebbe il nostro film. (tutti ridono [n.d.r.]). È un grande artigiano, lo amo. Credo che la vacuità sia parte centrale del nostro film. In merito alla questione dell’ambiente interno non saprei. Puoi sentirti solo anche se circondato da persone.
C– Per me la parola giusta è “assenza”, anche se puoi interpretarla come solitudine. C’è assenza di narrazione, di logica, nel nostro film. Soprattutto nel tornare sempre alla scalinata che si vede in vari momenti di Hexham Heads, come se si stesse cercando qualcosa. Hai la sensazione di non poter uscire dal circolo vizioso. Credo che abbiamo entrambi una visione comune sul significato di questa cosa. Ma per me ha molto a che fare col mio rapporto con la realtà familiare.
È un problema di natura esistenziale (ride [n.d.r.]), Mattijs ha avuto una famiglia “normale”, amorevole. Nella mia famiglia c’era molta tensione, avvertivo un’assenza in un certo senso.
Nel raccontare la storia della famiglia Robson in Hexham Heads, abbiamo accettato che la forma che volevamo dare al film lo avrebbe reso un film di suggestioni, “sul nulla”, in pratica. Poi Mattijs ha avuto l’idea di mettere mio fratello nel film, lo si vede alla fine intento a ricreare le rocce, le Hexham Heads.
M– Quella sequenza effettivamente è un piccolo documentario. Suo fratello è un operaio. In quel momento stava lavorando con del cemento liquido tra le mani, non era una scena prevista in sceneggiatura. Era perfetta. Certe magie capitano nei momenti giusti quando si è sul set.
C– Quando gli immobili passano di proprietà spesso è come se i nuovi proprietari cercassero di “sviscerarli”, tirare tutto fuori così da eliminare il suo passato. Per me è tremendo cancellare la storia di una casa, in un certo senso cancelli anche gli spiriti che albergano in quel luogo.
M– Dal ventesimo secolo in poi le persone hanno iniziato a lasciare in eredità case e palazzi, specialmente in Italia se non erro. È una novità di quel tempo iniziare a valutare delle possibilità: “Una persona è morta in questa casa, che facciamo? Vendiamo? Ristrutturiamo?”.
Personalmente non voglio vivere nella casa che è stata di qualcun altro, voglio vivere nella mia di casa.
E per tornare all’assenza. Si ha spesso paura dei fantasmi. Ma non è forse più spaventoso un luogo senza fantasmi? Sono perseguitato dallo spirito, per dire, di mia nonna morta? Beh, guardiamo il lato positivo, almeno è ancora lì.
Credo che Hexham Heads sia un grande critofilm. L’horror è in assoluto il genere più satirico che ci sia, per come la vedo. Si ha l’impressione, guardando il film, che vogliate analizzare il contesto dell’horror contemporaneo, in particolare i suoi stereotipi ed eccessi.
Sono innamorato della sequenza in cui il voice over racconta al pubblico un sogno in cui viene inseguita da un’ombra. Subito dopo però, dopo un jump-scare, mostrate la stessa scena, senza voice over questa volta, semplicemente mostrando dei fotogrammi fissi che si alternano mentre la cinepresa sale le scale. Credo che questa sequenza ci dica molto del rapporto tra il pubblico e le immagini. Pima ci mostrate la scena del sogno in forma esplicita, a parole, poi la ripetete usando solo la forza del visivo.
Il pubblico oggi cerca esattamente questo, che le cose gli vengano spiegate in maniera chiara, didascalica.
Qual è il vostro pensiero sulla situazione dell’horror, in quanto genere fortemente politico e satirico al giorno d’oggi? Quale sarebbe la vostra soluzione alla crisi creativa che ha colpito il cinema dell’orrore?
M– Ottima domanda.
C– Per quanto riguarda la scena del sogno che citi, è a metà tra finzione e realtà. Abbiamo iniziato a scrivere il film e mi è venuta l’idea di usare una sequenza onirica per entrare nello spazio delle Hexham Heads. Poi però quando è arrivato il momento di scrivere la scena ho avuto difficoltà a immaginarla. Così ho iniziato a rileggere un mio vecchio diario dei sogni, in cui annotavo le mie esperienze oniriche.
In effetti la scena “era già scritta” in un certo senso. Quando sogni qualcosa è frutto del tuo inconscio e spesso ricerchi quelle immagini anche da sveglio, una volta cosciente. C’è una correlazione tra le due dimensioni. Credo sia questa la risposta alla tua domanda in merito alla sequenza del sogno.
M– Entrambi siamo haters del voice over, non solo nel cinema. L’arte in generale soffre di una malattia: il didascalismo, che si spinge oltre l’inverosimile. Non credo che amiamo il cinema per le “parole”, amiamo il cinema perché a volte è non-sense, spesso scioccante: ti lascia senza parole. Sentivamo che il voice over fosse necessario poiché la scena era troppo astratta e serviva qualcosa che ci riportasse alla realtà, alle Hexham Heads.
C– Ma anche per riflettere su come la voce può essere usata a raccontare storie diversificando.
M– Credevamo che quella voce fuori campo fosse parte dell’ambiente. Poi però è stato necessario ai fini della storia “lasciarla indietro”, tornare alle immagini, per poi farla tornare nuovamente. Eravamo molto autocritici in merito alla questione voice over. Ci interrogavamo costantemente su quanto fosse lecito usarlo in alcuni momenti e su quando sarebbe stato necessario.
Il rosso è ovviamente associato al colore all’interno ella camera oscura, dove le immagini vengono sviluppate. Il rosso è quindi un simbolo di nascita, genesi all’inizio del corto. Poi però nel finale vediamo che l’uomo con la barba, che è il fratello di Chloë, ricostruisce le due rocce ha indosso un cappello rosso. Come se quel colore adesso venisse associato a una comfort zone.
Che ragionamento avete seguito nell’utilizzo di questo colore, che significato gli attribuite?
M– Abbiamo ragionamento molto sui colori. Il rosso è un colore horror, ma allo stesso tempo è il colore delle camere oscure, quindi il rosso è…
C– …è uno spazio.
M– Sì, uno spazio. Mi piacerebbe darti ragione e dirti che siamo dei geni per via di questi costanti rimandi al colore rosso nei momenti cruciali del film. Ma mentirei, perché nulla di tutto questo era voluto.
C– Il cappello rosso l’ho regalato a mio fratello per Natale, è una coincidenza.
Anche le pareti della tavola calda in cui tuo fratello sta seduto alla fine del film, sono rosse.
M– Anche quella è una coincidenza (tutti ridono [n.d.r.]).
C– Volevamo girare questa sequenza nel luogo in cui lavora. Quando abbiamo visto quella tavola calda in cui lui e i suoi colleghi si godono le pause pranzo, me ne sono innamorata. L’inquadratura finale a cui fai riferimento è la mia preferita del film.
È davvero intima.
C– Vederlo lì senza i suoi colleghi è stato strano, lo è stato anche per lui forse. È stato piacevole per noi due esplorare i suoi spazi di lavoro, mentre ci raccontava tutto di quei luoghi.Lavora in una fabbrica che produce materiali edili. È stata una coincidenza quella del cemento tra le sue mani, come ho già detto prima, ma si è inserita perfettamente nel contesto del film.
Sembra sia stato facile per lui recitare davanti a una cinepresa di punto in bianco.
C– Sì, era tranquillissimo. A dirla tutta, di lì in avanti ha iniziato a creare varie Hexham Heads, mi invia sempre le fotografie.
Avete creato un mostro (tutti ridono [n.d.r.]).
M– Sarà anche stata una coincidenza, tutto è in realtà frutto della magia del set. Forse è anche per questo che amiamo quelle immagini che chiudono il film.
I miracoli capitano sempre sul set, non sono reali coincidenze.