Il cinema di Alice Rohrwacher ha l’aspetto di un sogno lucido. Gli scenari in cui ambienta le sue storie sembrano dipinti dalla stessa regista, sebbene si tratti dei più ordinari borghi della periferia italiana. Quello che viene considerato rudimentale, lei lo riqualifica, cospargendolo di polvere di fata.
Perché come in ogni sogno, si ha percezione di star vivendo una fiaba: un racconto senza precisi riferimenti di spazio, tempo e luogo, in cui tutto è concesso, poiché destinato a morire nel giro di qualche pagina.
Nel sogno lucido, il sognatore, qui protagonista di un racconto fiabesco, ha la possibilità di scegliere come far proseguire la storia dopo aver preso coscienza di star sognando. Passa dall’essere il burattino in una storia a essere narratore.
La chimera di Alice Rohrwacher è esattamente questo. Il suo protagonista, Arthur (o Artù) è un inglese trapiantato in quella che fu l’Etruria, ora Costa degli Etruschi, Toscana, Italia. Siamo tra gli anni ’70 e gli anni ’80, Arthur è un clochard che mantiene il fantomatico fascino dello straniero. I suoi occhi sono logorati dalla stanchezza fisica e mentale, fuma come un turco, è irascibile.
Si mantiene collaborando con un gruppo di tombaroli locali che vive sgraffignando tombe e necropoli etrusche, rivendendo a un collezionista d’arte i reperti. Arthur ha dei brevi svenimenti ogni volta che “percepisce” istintivamente la presenza di tombe sottoterra. L’unica donna tra i tombaroli definisce questo suo sesto senso “le sue chimere” ergo i suoi sogni improbabili.

Si allude più volte alla figura dell’impiccato, che nella lettura dei tarocchi rappresenta una connessione profonda col mondo spirituale, data da un cambio di prospettiva. Quando Arthur ha “le sue chimere” l’inquadratura si capovolge, capovolgendo quindi la sua prospettiva.
Entrare in contatto con le necropoli lo avvicina spiritualmente alle anime che vi risiedono. L’esplorazione delle varie rovine mostrate nel film lo portano gradualmente a realizzare di poter controllare l’incantesimo, il sogno lucido che la splendida regista della sua storia sta orchestrando oltre la macchina da presa.
La storia diventa di proprietà del suo protagonista quando realizza, guardando negli occhi la statua di una dea degli animali, che certi manufatti non sono fatti per gli occhi dei vivi.
Scegliendo di abbandonare la vita del profanatore di cripte, sceglie anche di credere nelle proprie chimere, su tutte la convinzione di poter trovare la sua amata Beniamina, morta prematuramente. Vaga nei luoghi della sua memoria, come una cartolina sbiadita, mentre riavvolge un filo rosso come Arianna nel labirinto del minotauro.
Entrare nel mondo di Alice Rohrwacher significa lasciare la terra per qualche ora. Abbandonare i problemi della realtà e perdersi in un immaginario che combatte per legittimare i propri sogni, e sostituirli alla realtà. Alla fine è tutto un trucco. Sì, è solo un trucco.