Tim Burton ha aperto la Mostra del Cinema di Venezia – fuori concorso – con il sequel del suo secondo lungometraggio da regista: Beetlejuice Beetlejuice, quarant’anni dopo Beetlejuice – Spiritello porcello.
In conferenza stampa Burton ha raccontato con entusiasmo di come questo progetto gli abbia fatto ritrovare gli stimoli per andare avanti col proprio lavoro, dopo essersi sentito sfruttato artisticamente dai progetti girati sotto contratto con Disney.
Il risultato finale testimonia splendidamente la resurrezione creativa (ed emotiva) del regista di Burbank. Beetlejuice Beetlejuice è un carnevale di spettri e cadaveri rivitalizzati che, come tanti colori di una tavolozza, sono strumenti coi quali Burton rimette in forma smagliante l’immaginario del cult del 1988.
Il grande ritorno di Burton al mondo del suo che più di tutti racchiude ogni stilema della sua poetica, diventa un pretesto per ritornare bambino e con ciò, di ricominciare a giocare con l’artigianato, con quello che si ha in casa.
Gli straordinari effetti pratici presenti nel film confermano l’ottima tendenza che negli ultimi anni ha portato produzioni ad alto budget a puntare su animatronic et similia nella realizzazione di progetti fantasy/di fantascienza.
Come confermato dai lungometraggi precedenti, l’ultimissima fase di carriera di Burton testimonia il suo interesse per la rielaborazione del proprio passato, artistico e umano. Beetlejuice Beetlejuice, ancor prima di raccontare qualcosa di nuovo, mette nuovamente in discussione quanto affermato dal suo predecessore del 1988.
Il Beetlejuice originale, nella sua duplice narrazione, raccontava le derive capitalistiche degli Stati Uniti attraverso gli uffici e la burocrazia nell’aldilà. Mentre ai viventi spettava l’indagine sul conflitto tra Boomers e Generazione X, incarnato dalla giovane Lydia Deetz (Winona Ryder) e dai i suoi genitori assenti.
Trentasei anni dopo, sarà una Lydia stralunata e vittima delle pressioni di un fidanzato (nonché collega) arrivista, a dover scendere a compromessi con la generazione incarnata da sua figlia Astrid (Jenna Ortega). La Generazione Z viene accolta a braccia aperte da Burton e il suo regno dei morti, al netto del suo scetticismo.
La generazione di Astrid porta con sé il pensiero tipicamente disfattista della Gen-Z, fatta di frustrazione verso un futuro in rotta di collisione, in cui i “padri” e le “madri” vengono respinti, poiché ancora bambini, in un mondo che li vedrebbe costretti a crescere in fretta.
Mettendo in scena un mondo che vive di conflittualità, Burton racconta al suo pubblico la trasformazione, in un certo senso, che il suo immaginario ha subito e di come questo lo abbia reso incapace di usare la sua voce per anni. La Lydia, madre assente soggiogata da un partner/manager, è la figura nella quale l’autore nasconde – neanche velatamente – sé stesso, dipingendosi come una signora di mezza età incapace di far credere a sua figlia – quindi a una nuova generazione – nelle sue capacità di medium.
Questo attraverso un viaggio nell’aldilà che passa, come ne La sposa cadavere, per un regno dei morti variopinto, nel quale la musicalità insita nelle cose riesce a divenire padrona del mondo. Perché come da tradizione, Tim Burton è sempre stato destinato al musical, è da sempre una sua indole, che si esprime al meglio quando affronta il genere musicale tra le righe.