Due anni dopo Il Signore delle Formiche Gianni Amelio (lui l’ultimo italiano ad aver vinto il Leone d’Oro al miglior film) racconta il formichiere, attraverso il suo Campo di battaglia: Gabriel Montesi interpreta un medico a capo di un ospedale militare, la cui spalla destra (Alessandro Borghi) escogita dei sotterfugi per rispedire a casa alcuni soldati destinati al fronte.
Siamo nel 1918, l’anno della vittoria, come annunciato durante la prima scena del film. Pile di corpi diventano macabri pezzi d’arredamento sui monti friulani. Chi sopravvive, seppur in condizioni precarie, molti dei quali ormai invalidi, privati della vista, o delle gambe, ad esempio.
Il medico interpretato da Montesi incarna una filosofia pre-fascista, pochi anni prima che quel male devastasse l’Italia. Un uomo senza scrupoli, figlio di benestanti che l’orrore della guerra, non l’hanno neanche fiutato, in quei quattro miserabili anni. Vivono in una bolla aristocratica.
La vittoria, la presa dei territori a nord della Padania, spiega Campo di battaglia, conta più di ogni altra cosa. Al punto da iniziare a considerare i soldati semplici come piccole formichine, da mandare in pasto alla morte. La corsa agli armamenti, seguita dal reclutamento dei giovanissimi appartenenti ai ceti più abbienti, incarnarono una modalità di scendere in campo inedita fino a quel frangente storico. L’eccesso imprenditoriale, applicato all’economia di guerra, portò il genere umano alla perdita di 16 milioni dei suoi soldati in territorio europeo.
Sebbene zoppi, orbi o peggio, i soldati vanno rispediti ai rispettivi reggimenti, a correre verso i propri ultimi attimi, respiri, timori. Verso il giudizio. Poiché la quantità, porterà il generale Diaz alla fantomatica vittoria mutilata.
Gianni Amelio mette in scena, in senso letterale e iperbolico, il concetto di vittoria mutilata, apparente. Utile solo alle prime pagine, per fomentare ondate di nazionalismo che degenereranno nel giro di quattro anni. In un certo senso l’arrivo al lido della serie tv su Mussolini, è una sorta di sequel ai fatti di Campo di battaglia.
La luce, nel racconto del film, sta nel personaggio interpretato da Borghi, un obiettore di coscienza, che agisce in totale segretezza, sa bene che è solo questione di tempo prima che la sua copertura salti e che i suoi protetti vengano rispediti in guerra, o peggio, giustiziati al tribunale militare.
Incentrare il terzo atto del film sull’avvento dell’epidemia da febbre spagnola, permette al racconto di mutare le proprie sembianze: sembra quasi che quei corpi ritenuti “inferiori”, “inutili”, ammassati nei campi e bruciati vivi, fungano da trailer per quello che sarà l’Olocausto vent’anni più tardi.
La riflessione di Campo di battaglia è appagante in tutte le proprie letture di natura storica, sebbene, va ammesso, le debolezze riscontrate riguardano i tempi della narrazione. Soprattutto nella scelta di ripetere in maniera pleonastica sequenze che si limitano a mostrare soldati moribondi in maniera quasi pornografica. C’è una mezz’ora di durata di troppo.