Il rapporto di Sorrentino con Napoli
Il decimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, Parthenope, è anche il suo secondo lavoro consecutivo a essere girato a Napoli, dopo un allontanamento durato vent’anni. Nel 2001, il suo primo film, L’uomo in più (disponibile su Netflix), aveva di sfondo la Napoli “pop”, quella del lungomare Caracciolo e dello Stadio Maradona – all’epoca San Paolo.
Per arrivare al 2024, a Parthenope, bisogna passare per il 2021, per È Stata la Mano di Dio, un’opera personale (forse per la prima volta) che lavorava coi registri della commedia napoletana – De Filippo, Troisi – bilanciandola coi toni cupi di un racconto di formazione che ribolliva in un calderone di silenzi e disagio dello stare al mondo.
Napoli, in È Stata la Mano di Dio, era “golfo”: accoglieva il protagonista, lo abbracciava, quasi fisicamente, nel processo di scoperta della bellezza, conseguente alla perdita dei genitori, per Fabietto Schisa. La corrispondenza tra l’alter-ego di Sorrentino e la malinconia insita nelle location cittadine, dava vita a una coesione, un’armonia.
Parthenope tra erotismo e antropologia
Al contrario, Parthenope (Celeste Dalla Porta), Napoli la vive come in una relazione sentimentale avvelenata alla radice: un rapporto tossico che oscilla tra attrazione e repulsione.
La storia della protagonista inizia con un parto in acqua – con una sottospecie di imitazione dell’Ammiraglio Achille Lauro, qui nonno di Parthenope ad affibbiarle il nome – seguito da un confinamento nelle mura domestiche: una villa d’epoca a Posillipo, che affaccia direttamente nel golfo, più che sul golfo.
Una vita, quella di Parthenope, con la collina posillipina a schiacciare fisicamente la lussuosa dimora contro il mare. Un’esistenza vissuta con lo sguardo forzatamente puntato verso il futuro.
Questa è la Parthenope di Paolo Sorrentino, in origine. Una ragazza, una dea, sessualizzata e oggettificata sin dal suo primo giorno al mondo. Nascosta come una pietra preziosa (o come un uovo magico, per restare in tema) in una villa abbandonata al tempo e alla noncuranza, trascorrendo ogni notte, nuda, a dormire adagiata in una carrozza d’epoca.
Il primo grande atto del film, racconta di come, in un processo analogo a un’analisi grammaticale, Parthenope passa dall’essere “nome comune di cosa” all’evolvere in “nome proprio di persona”.
L’oggetto Parthenope, spogliato con gli occhi dai maschi che la circondano e la umiliano, senza che lei possa rendersene pienamente conto, da ragazza, realizzerà di voler vedere le cose – perché antropologia vuol dire vedere, come suggerisce il personaggio di Silvio Orlando – in quanto soggetto osservante, non più come oggetto osservato.
Uno struggente atto del film, ambientato a Capri, rappresenta la perdita dell’innocenza per la protagonista. Un’innocenza che non è intrinsecamente legata a un pudore sessuale, come lascerebbe immaginare un film definito del suo stesso autore come “incentrato su temi impopolari come erotismo, bellezza e libertà”.
L’innocenza qui, viene spezzata dalla rivelazione più drastica e – purtroppo – popolare che possa esistere nel mondo maschilista del ‘900 italiano: lo sguardo invadente di chi desidera dominare un corpo femminile.
Un racconto epico tra Frankenstein e Alice
Nei frangenti successivi alla presa di coscienza della protagonista, Parthenope diventa un racconto di formazione, fatto di incontri surreali con figure che incarnano diverse prospettive, stereotipiche e non, sui diversi animi della città, come una caricatura gigantesca di Sophia Loren, interpretata da Luisa Ranieri, oppure il camorrista gentiluomo di Marlon Joubert, passando per il cardinale di Peppe Lanzetta.
Parthenope, come già il precedente This Must Be The Place, è un racconto epico, che muore, in un paradosso archetipico, nell’istante in cui la protagonista parte per un viaggio che ha una meta ma che non prevedere un ritorno. Il racconto epico è però adornato da due pilastri della letteratura del XIX secolo: Frankenstein di Mary Shelley e Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carrol.
Cos’è Parthenope se non un ammasso di resti di una moltitudine di copri rancidi, tenuti insieme da spago e punti di sutura? Cos’è Parthenope se non un corpo sessualizzato, che cela però una mostruosità emotiva che desidererebbe essere soppressa? Cos’è, infine, Parthenope se non una bambina costretta a raffrontarsi alla follia di uomini liberi, come Alice?
L’ultima fatica di Paolo Sorrentino racconta il conflitto insito tra Napoli e i suoi figli, in una definizione della città che probabilmente renderà difficile comprendere la natura stessa del film fuori dai confini campani.