A Fidai Film di Kamal Aljafari, presentato in concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro si candida a essere uno dei film più apprezzati di un 2024 fino a ora sbalorditivo in termini di qualità.
Nel 1982, a Beirut, l’esercito israeliano invade la città, radendo al suolo il Palestinian Research Centre, un archivio di immagini, custode di centinaia di riprese amatoriali in Super 8 e VHS. Lo sterminio sistematico di una cultura, quella palestinese, che passa come nelle migliori tradizioni genocide, attraverso l’eliminazione delle prove dell’esistenza di quest’ultima.
Cancellare le tracce. Questa è la soluzione finale adottata in innumerevoli contesti golpisti e/o terroristici. La storia dell’archivio di Beirut non fa purtroppo eccezione. Decenni di storia palestinese eliminata da esecutori materiali, schiavi di una casta di criminali.
Quarant’anni dopo, Kamal Aljafari, riporta alla luce questo materiale audiovisivo testimone della storia del proprio popolo. Lo fa limitandosi, per usare un eufemismo, a scoperchiare il vaso di Pandora. Ciò che ne fuoriesce è il prodotto finito della violenza: la morte. Di alcuni individui, di molte famiglie, di una cultura, di un popolo.
A più riprese nel corso del film, documentario, un vero capolavoro del genere found-footage, sentiamo voci sempre diverse cantare l’inno nazionale palestinese, il Fida’i, per l’appunto, che dà il titolo al film. La prima immagine alla quale assistiamo è quella di un’enorme luna rossa che sovrasta la costiera libanese, con alcune onde del mare contagiate e plagiate dal rossore del satellite terrestre.
La soluzione del rosso contrasta il bianco e nero delle immagini di repertorio, diventerà la costante della narrazione tessuta da Aljafari, che quasi sembra voler evidenziare di rosso alcuni soggetti, come fossero bersagli, spersonalizzandoli. Il che ricorda La Zona d’Interesse.
Lì Jonathan Glazer metteva in evidenza la ragazzina ebrea intrufolatasi nel campo di concentramento riprendendola in negativo, quasi con un filtro a infrarossi. Glazer colora con l’evidenziatore un personaggio che, seppur vivo al presente dell’azione, è già morto.
Aljafari non si allontana di troppo dal metaforico albero, anzi. Decide di cancellare con l’immancabile rosso alcune didascalie che appaiono a schermo all’inizio della pellicola. Come se stessimo tentando invano di leggere un discorso censurato dall’oppressore.
Le storie contenute in questo archivio ritrovato (i filmati utilizzati vanno dagli anni ’50 agli anni ’70) formano un carosello che attraversa le principali correnti cinematografiche esplose in quei decenni. Si passa dal found-footage che racconta la quotidianità degli ultimi, in pieno stile neo-realista, per poi passare alle clip di un film francese in pieno stile nouvelle vague.
La ricerca delle proprie radici, di un’identità storica, seppur recente, passa attraverso la appropriazione delle proprie immagini. Aljafari identifica la redenzione del proprio popolo nella riconquista dell’immagine.
Prodotto tramite il bando “Biennale College”, messo a disposizione dalla Biennale di Venezia nel 2022, A Fidai Film non ha ancora trovato una distribuzione in Italia. Ci auguriamo che la premiere pesarese possa aiutare il film di Aljafari a convincere qualcuno a portarlo in sala, anche solo per qualche giorno in forma di film-evento.