All’età di sei mesi Edgardo Mortara, figlio di una famiglia ebrea di Bologna, venne battezzato a insaputa dei suoi genitori da una balia. Nel 1858, l’inquisitore di Bologna sottrasse il bambino alla sua famiglia a soli sei anni per garantirgli un’educazione cattolica.
Inizia qui la storia di Rapito, ventiseiesimo lungometraggio di finzione del più grande regista italiano in attività: Marco Bellocchio. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023 è stato accolto positivamente da pubblico e critica, non una novità per il cineasta piacentino, fresco del David di Donatello per Esterno notte.
Bologna e Roma sono i due palcoscenici dell’opera di Bellocchio, ciascuna a rappresentare un’appartenenza religiosa, ebraica nel caso della prima, cristiana cattolica nel caso della capitale d’Italia. Bologna è in un certo senso il Giardino dell’Eden nel quale il piccolo Mortara, ignaro, viene ingannato e maledetto a vita con la somministrazione del primo sacramento. Al contrario Roma è l’esilio, sebbene venga mascherato da oasi di salvezza agli occhi del bambino.
Preti, suore e Sua Eminenza Papa Pio IX, coi loro abiti nobiliari nascondono la propria perfidia. Nella scena d’apertura de La morte corre sul fiume (1957) di Charles Laughton una donna, rivolgendosi a dei bambini, li mette in guardia: attenti ai lupi travestiti da agnelli. La stessa donna, sostiene a più riprese nel corso del film come i bambini siano gli unici in grado di non essere spezzati dalla paura.
In un certo senso Rapito si aggancia alla perfezione al film di Laughton e non ci sarebbe nulla di sorprendente nello scoprire che Bellocchio ci abbia pensato durante la lavorazione della pellicola.
L’arco temporale coperto dal film va dal 1858 al 1878, raccontando il declino dell’imperialismo pontificio in concomitanza con l’adempimento dell’unità d’Italia. Il rapimento di Edgardo Mortara resta uno dei crimini più aberranti commessi dalla chiesa cattolica, figlio della follia e della frustrazione raggiunta dal Papa-Re nel corso della gestazione del proprio regno.
Un tentativo maldestro e disumano oltre ogni misura di mostrare agli occhi dei fedeli il pugno di ferro dell’istituzione di Dio, ancora in grado di purificare un’anima perduta dal demone dell’ebraismo.
La conversione religiosa, il rapimento e la clausura trasformano Edgardo Mortara in una pecorella vincolata al proprio gregge più che un agnello di Dio. Rimarrà fedele al Papa anche dopo la sua morte, rifiutando la stessa, in un certo senso. Un po’ come l’anziana protagonista di Good Bye, Lenin!, incapace di accettare il crollo dell’URSS.

La drammatizzazione di un periodo storico
Come di consueto Bellocchio riesce a drammatizzare un periodo storico, rendendolo funzionale all’evoluzione morale dei propri personaggi, mettendo in scena una ricostruzione del Risorgimento italiano da pelle d’oca.
La fotografia firmata da Francesco Di Giacomo richiama la pittura dell’epoca, non solo quella del Risorgimento italiano, ma anche quella del Realismo francese, con chiare allusioni alla composizione e all’illuminazione prediletta da autori come Courbet. I totali in interno, che siano ripresi in Vaticano piuttosto che nell’abitazione bolognese dei Mortara, sono dei quadri in movimento degni di Barry Lyndon, per restare al cinema.
Nel cast tornano tre attori molto cari dall’autore, Barbara Ronchi (Fai bei sogni), Fausto Russo Alesi (Il traditore, Esterno Notte), Fabrizio Gifuni e Paolo Pierobon (entrambi in Esterno Notte). Per stessa ammissione di Bellocchio, il suo tentativo è quello di emulare Ingmar Bergman, il quale aveva un gruppo di attori che si scambiavano di ruolo a seconda del progetto messo in scena, senza una vera e propria gerarchia.
Il tentativo dichiarato di emulare Ingmar Bergman
L’unico difetto imputabile a Rapito, purtroppo, sta proprio nella scrittura dei personaggi. Mentre l’Italia va avanti e matura nuove forme di consapevolezza politica, legislativa, nuovi sistemi di valori e soprattutto un nuovo senso di appartenenza, è come se i protagonisti del film, dalla famiglia Mortara al Papa, non riuscissero ad andare di pari passo. Sembra quasi che tutto ciò che avviene fuori dalle rispettive mura domestiche non li condizioni minimamente.
Edgardo Mortara ne è la prova vivente, la sua prospettiva non ha un’evoluzione, una volta cresciuto, nell’ultimo atto del film. Diventa, in un processo di evoluzione del personaggio inequivocabilmente macchiettistico, la personificazione del dogma: “obbedisco”.