Saltburn di Emerald Fennellè, che ci crediate o no, un tentativo tanto confusionario quanto casuale di emulare Pasolini e la sua “trilogia del potere” (Teorema, Porcile, Salò o le 120 giornate di Sodoma). Nella trilogia vige la regola della “anarchia del potere”, topos tipico del cinema e della letteratura pasoliniana. C’è, secondo il regista friulano, una correlazione diretta tra libertà di azione e appartenenza a una classe sociale medio-alta.
La Fennell nel suo pastrocchio cerca di ricreare questo perverso equilibrio. Il risultato? Un’opera trash senza precedenti.
Saltburnè il nome di un castello appartenente alla famiglia Catton, aristocratici britannici. Il figlio maggiore Felix studia a Oxford, dove conosce Oliver, figlio di una famiglia umile.
Oliver diventa sostanzialmente uno scroccone, parassita avvinghiato al benessere e alla nullafacenza dei nobili di Saltburn. La storia di Saltburn si rifà in toto all’immaginario del cinema della lotta di classe, da Il servo di Joseph Losey al celeberrimo Parasite di Bong Joon-ho.
La regista/sceneggiatrice di Saltburn vive lo stesso destino del suo protagonista, in effetti. Dipende da Pasolini, da Losey e da Bong nel creare un’operetta derivativa e fine a sé stessa, proprio come Oliver dipende dall’aristocrazia.
Ispirarsi a Pasolini ovviamente implica il tirare in ballo uno scenario erotico provocatorio. Le provocazioni di P.P.P. tuttavia miravano a far risvegliare perversioni e fantasticherie recondite della borghesia industriale degli anni ’60-’70.
Nel caso di Saltburn le avventure erotiche del protagonista puntano solo a schifare lo spettatore per il puro gusto di poter gridare a squarciagola: “Guardatemi! Sono la nuova Pasolini!”.
Ma non funziona così, per grazia divina.
Provocare è un’arte e qui di artistico c’è solo la pretenziosità di un’autrice frivola. Già nella sua prima regia Una donna promettente la vendetta di genere della protagonista nei confronti degli uomini in quanto tali rasentava la vacuità.
Il cinema di Emerald Fennel è ambiguo, ma non per scelta. È solo in balia delle conseguenze. L’unico tratto distintivo “voluto” del suo cinema risiede nella sua pietosa estetica kitsch.
Far credere a un pubblico di cinefili in erba che questo scempio possa essere considerato “una profonda riflessione sulle disparità sociali e sulla giustizia privata” è francamente aberrante.
Come era aberrante (e demenziale) tutto il discorso che portava avanti sul patriarcato e il femminismo attivo in Una donna promettente.
Perdonala Pier Paolo, non sa cosa sta facendo.