L’ultimo film di Ken Loach, presentato allo scorso Festival di Cannes, è una delusione.
La storia ha luogo in un villaggio nel nord dell’Inghilterra, dove un gruppo di profughi siriani è appena arrivato, in fuga dalla guerra. Gli abitanti del paesino sono tra i più beceri razzisti che si vedano al giorno d’oggi. L’unico bianco che sembra essere propenso al contatto con la comunità ospite è il signor TJ, proprietario di un pub: il The Old Oak.
Guardare il film di Loach dà l’impressione di star leggendo i commenti di un post su Facebook. Il pub a cui allude il titolo è la bacheca Facebook della storia. Gli amici di lunga data di TJ, dei cinquantenni/sessantenni reazionari fino al midollo, rivendicano il proprio diritto a “parlare male di quello che vogliono quando sono nel loro pub”. Questo concetto viene espresso proprio esplicitamente da tutti loro in più momenti del film: “stare al pub significa essere liberi dai problemi che ci sono all’esterno”. I problemi, sottintende la frase, sono per loro gli immigrati.
Loach non fa nulla per rendere meno didascalica la sua (nobile) ideologia progressista, rendendo ogni singolo personaggio (a eccezione del protagonista) una macchietta. I bianchi non hanno cervello. I siriani sono dei sacchi da boxe, la loro quotidianità non viene mai mostrata. Le uniche volte in cui avviene vengono messe loro in bocca battute che non stanno né in cielo né in terra. Fuori luogo, pretestuose, fin troppo esplicite nelle proprie intenzioni.
Se stessimo parlando di un film per le scuole saremmo davanti a un buon prodotto. Ma siccome stiamo parlando del film di un attivista socialista, più che di un cineasta, non è ammissibile un livello di scrittura così esplicito.

Va detto però, due personaggi vagamente interessanti ci sono. Il rapporto tra TJ e la giovane Yara, una delle poche ospiti siriane che parlano un inglese fluente, è l’unico punto di contatto tra le due comunità a risultare credibile.
La ragazzina gira sempre con una fotocamera regalatale dal padre, rimasto in Siria. La camera rappresenta la sua libertà: la possibilità di adottare un punto di vista sul mondo e di sviluppare pin piano la propria prospettiva. Questa idea è chiara sin dalla scena d’apertura, resta un mistero il perché il concetto di cui sopra le venga fatto ammettere in un monologo. Noi (pubblico) conosciamo già questa informazione.
Infine TJ funziona perché è il mezzo attraverso il quale Loach mette in scena i dubbi rispetto al suo attivismo e alla sua ideologia. “Mio padre diceva sempre che se gli operai capissero che insieme sono inarrestabili, potrebbero cambiare il mondo” ammette TJ davanti ad alcune istantanee da lui scattate durante uno sciopero di decenni prima.
Come spesso capita guardando film di Ken Loach, sembra di star leggendo un riassunto per studenti delle medie del Manifesto di Marx ed Engels. Troppe volte in The Old Oak l’attivista/cineasta britannico mescola tra loro ideologia e sentimenti, senza rendersi conto di quando conferire il giusto spazio a una cosa piuttosto che all’altra.
Il risultato? Battute come: “Mi dispiace per la perdita di tuo padre. Mi dispiace per il tuo paese.” Detto da una ragazzina di undici anni durante un “funerale” non ha senso. Cosa vuoi che le importi delle condizioni umanitarie in Siria, soprattutto in un momento del genere?
Più che un film, come scritto qualche riga più su, anche i personaggi positivi del film si esprimono come degli Facebook in una sezione commenti.