Sollima decide di giocare ancora una volta in casa, ribadendo la volontà di rimanere confinato nel genere gangster/crime “all’italiana”. L’influenza delle ultime esperienze statunitensi impregna l’intero film, dando vita a una crasi tra i primi lavori del regista e i due girati all’estero.
L’ambientazione capitolina, i personaggi protagonisti contraddistinguibili in Gomorra piuttosto che in Suburra si scontrano con la tensione e l’approccio da film di spionaggio visti in Soldado.
Sollima ha indubbiamente “rubato il mestiere” lavorando a stretto contatto con produzioni hollywoodiane, al punto da non saper quasi più riconoscere il confine tra cinema di genere d’oltreoceano e la propria identità di maestro del crimine all’italiana.
La storia ruota attorno a Manuel, ragazzo romano immischiato in un caso di omicidio che vede coinvolte le tre trinità del potere: la politica, le forze dell’ordine e alcuni ex membri della banda della Magliana.
Il tema portante dell’opera è quello della paternità. I tre protagonisti, Favino, Servillo e Giannini sono tre esempi e declinazioni di genitorialità agli estremi. I lunghi tempi dedicati al racconto della propria genitorialità non intenerisce, non aiuta nemmeno a empatizzare con la loro visione del mondo.
Questo perché la tematica in questione non è palesemente stata trattata per fini nobili. Ciò che passa attraverso le immagini e il dialogo è tuttalpiù che Sollima e il suo co-sceneggiatore Stefano Bises abbiano scelto questo espediente solo per far convergere i punti di vista dei protagonisti nello stesso punto, per evidenziarne il profondo contrasto.
Volendo stringere, ciò che non funziona del nuovo film di Sollima è proprio nel melting pot di stilemi e concezioni riguardanti la Settima Arte che finiscono per contrastarsi fra loro (e annullarsi) proprio come accade ai personaggi del film.
Il personaggio di Servillo sembra una rivisitazione del Don Pietro di Gomorra interpretato da Fortunato Cerlino, ma ricorda anche una delle nemesi fumettistiche di Batman, Calendar Man.
Mastandrea invece è una sorta di Daredevil decaduto. Insomma, sarà una provocazione, ma ciò che traspare è che in fase di scrittura si sia cercato un punto di contatto tra l’immaginario pop/fumettistico americano e il mondo criminale italiano già ampiamente raccontato dallo stesso Stefano Sollima.
Un altro mistero è relativo alla messa in scena. Per tutto il film un enorme incendio, simile a quelli visti di recente in Australia e alle Hawaii, fa da sfondo a Roma, le cui luci si spengono a tutte le ore del giorno e della notte per dei blackout.
Lo spettatore sarà convinto per tutta la durata del film che questi elementi abbiano una valenza narrativa, o quantomeno di contesto, all’interno del racconto. Costui si sbaglierà. In due ore e dieci incendi e blackout rimarranno sempre di sfondo. Di fatto sono pretesti per effettuare inquadrature con illuminazioni suggestive, francamente “da paura” alle volte, sempre sia lodato il direttore della fotografia Paolo Carnera.
L’opera di Sollima guarda tanto all’immaginario dei film di Michael Mann, che a Venezia ha messo da parte i gangster per parlare di Enzo Ferrari. Adagio pare voglia raccogliere da terra i rifiuti gettati da Mann per emularne gli stilemi, in un certo senso Sollima cerca di girare il suo personale Heat – La sfida. Ne sarebbe perfettamente in grado, dato il suo inconfondibile tocco estetico su personaggi e mondo narrativo, ciò che gli manca è una sceneggiatura sufficientemente forte.