Pablo Larrain ha ormai piantato le radici del proprio cinema in storie ispirate alle vite di personaggi storici contemporanei,. Da Pablo Neruda a Diana Spencer, passando per Jackie Kennedy sono il suo contesto di ispirazione. Questa volta però, ha deciso di fondere il culto della personalità con il surrealismo per mettere al mondo El Conde.
“Il conte” non è altro che il generale Augusto Pinochet, qui nelle vesti di un vampiro bicentenario che non vede l’ora di morire, consumato dalla banalità della propria esistenza. Vive circondato da moglie e figli, avidi di danaro, ormai rimasti orfani della ricchezza del padre, isolato dal resto del mondo.
Una giovane e prosperosa donna di fede, nel tentativo di purificare la sua anima, finirà per dare una nuova speranza al redivivo Pinochet.
Il Pinochet-vampiro è debole, insicuro, sessualmente represso e forse anche vittima del complesso di Edipo. L’umiliazione del Generale passa attraverso la satira dei valori militari e delle imposizioni sociali legate alla virilità tossica.
Nella sua messa in scena lugubre oltre ogni limite, caratterizzata da un bianco e nero granuloso, Larrain rivolge lo sguardo a due maestri, fermandosi a metà strada tra il surrealismo satirico di Buñuel e le danze macabre di Dreyer. Nonostante queste due influenze titaniche, l’animo del cineasta originario di Santiago non viene mai meno, riuscendo reggere nel palmo di una mano il peso di un’opera allegorica ambiziosa oltre ogni limite.
Ciò che sorprende delle scelte simboliche di El Conde sta proprio nella fermezza con cui il suo autore riesce a tener viva la fiamma della propria ideologia artistica e politica. Non si snatura al servizio dello stile di terzi, né si lascia corrompere da questi. Ruba con discrezione.
La nuova opera di Larrain è un ritratto, tra nostalgia e terrore per il futuro prossimo, del suo paese tanto quanto del mondo occidentale viziato dalla nuova ascesa delle destre.
L’intera opera sembra essere il controcampo de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders. La struttura poetica presenta molteplici similitudini col capolavoro del Nuovo Cinema Tedesco, declinandola in maniera differente.
Il demone del fascismo veglia dall’alto sulle vite dei comuni, fluttuando sopra le nuvole che sovrastano Santiago. La creatura immortale rivaluta il valore del proprio vissuto innamorandosi di una ragazza che rappresenta, volendo dare un’interpretazione alla scelta del bianco e nero, il colore che non ha.
Le opere destinate a rimenere negli anni sono, nella maggior parte dei casi, quelle che non provano vergogna o timore nel fotografare il proprio presente storico, sia esso legato all’attualità in senso ampio che al cinema in quanto mezzo espressivo.
Il Pinochet di Larrain è sfacciato oltre ogni misura, seguendo questo filo logico: racconta un mondo assuefatto dalla nostalgia, terrorizzato dall’idea di approdare presso terre inesplorate. Un concetto attorno al quale la società dei consumi ha eretto il proprio tempio nell’ultimo decennio.
Il più celebre regista cileno riesce a rendersi portavoce del dolore di una nazione, prima ancora di confezionare quello che a oggi è il suo capolavoro personale.
Larrain fa scorrere ancora una volta il sangue dei suoi compatrioti, questa volta versandolo nel frullatore di un vampiro terrorizzato e affascinato dalla morte.