Quattro anni dopo Pinocchio Matteo Garrone presenta, per la prima volta in carriera a Venezia, un altro Pinocchio, questa volta sotto mentite spoglie.
Io capitano è la storia di due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa in viaggio verso l’Europa. Hanno sedici anni, sono cugini. La madre di Seydou vieta categoricamente al figlio di partire, nonostante le nobili intenzioni. Il ragazzo sostiene di voler partire per mandare soldi alla famiglia a Dakar, quando in realtà la tentazione che lo anima è ben più banale (quanto viscerale): la curiosità.
Scoprire un mondo nuovo porta il nostro giovane Pinocchio ad accettare la proposta di Moussa, nelle vesti di Lucignolo, e partire all’avventura.
Una volta iniziata la traversata attraverso Senegal, Niger, Mali, e Libia passando per il deserto del Sahara, il setting narrativo del film segue quello di un racconto di formazione. Ci sono varie tappe, vari incontri che aiutano il protagonista a scoprire sfaccettature della violenza e del dolore a lui ignoti, dalla morte alla tortura, dalla reclusione allo squadrismo, per avvicinarsi anche a temi più politici anziché umani.
Il compagno di cella di Seydou/Pinocchio, un uomo sulla cinquantina, funge da figura paterna, da Geppetto, l’unico spiraglio che Garrone concede all’amore per entrare dolcemente nel racconto.
La scelta di adottare lo schema narrativo dell’opera di Collodi si rivela una decisione vincente, paradossalmente più funzionale oggi che nel 2019 nel caso del vero adattamento di Pinocchio. Qui il protagonista viene forgiato dal dolore e dal lutto per quelli come lui che sono stati condannati a una sorte ben più amara.
Pinocchio del 2019 era un film fantastico, come anche Il racconto dei racconti, che forse rientrano proprio tra le opere meno riuscite di Garrone, sotto alcuni aspetti, sicuramente le più superficiali, incomplete.
Il regista romano trova la sua forma migliore nell’evolvere la realtà a fiaba contemporanea, da Primoamore a Dogman, passando per Gomorra e Reality. Io capitano al contrario usa la fiaba per raccontare a parole proprie un dramma che è distante anni luce dalla sua/nostra cultura e dal proprio status di privilegiato.
Garrone non giudica, mostra. Prende per mano lo spettatore con tenerezza, salvo poi scaraventarlo da un elicottero in volo nelle fauci del pescecane di collodiana memoria.
Si avvicina a un realismo quasi incontaminato dalla fantasia per una volta, al fine di raccontare un dramma reale praticando voyeurismo su uno spettacolo agghiacciante.
L’ultima scena poi, giura eterna fedeltà alla prospettiva adottata sulla storia: la visione “italiana” sul viaggio di una nave ricolma di anime in pena non viene mai fornita. Stiamo sempre dalla parte degli ospiti, mai degli ospitanti.
Io capitano è già in sala, correte a vederlo. Una delle poche note positive di Venezia 80.