Bertrand Bonello porta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia il suo nuovo sorprendente lavoro, La bête, con protagonisti Lea Seydoux e George McKay.
Bonello è uno dei nomi di spicco del cinema francese recente e con quest’ultima opera non delude di certo le aspettative.
La bête spicca per coraggio: il concept del film è tanto semplice quanto intricato, ciò che rende contorta la comprensione della storia è la forma che Bonello sceglie di conferire al film. I due protagonisti sono genuinamente innamorati l’uno dell’altra, tuttavia hanno paura del proprio amore, di quanto il dolore di ognuno dei due possa intaccare la felicità della relazione. Questo terrore profondamente umano li conduce a una scelta: tentare una cura sperimentale che si occupa di rimuovere la negatività recondita dalle persone. Come? Interferendo con i ricordi delle vite precedenti di ognuno.
Questa macchina fa sì che i due personaggi affrontino in prima persona i traumi e i dolori che hanno rovinato le loro esistenze antecedenti. Le linee temporali presenti nel film sono quattro, a cavallo tra gli anni ’10 del ‘900 e il 2044.
Questa spiegazione che avete appena letto tuttavia non viene mai palesata all’interno del film. Fin dall’apertura verrete immediatamente catapultati nell’avventura dei due protagonisti. Gli indizi validi a comprendere il perché di certe stranezze vi verranno forniti su per giù a metà dell’opera.
Il coraggio di Bonello sta in questo, modellare il proprio lavoro su una struttura narrativa (e di montaggio) asimmetrica, senza soluzione di continuità. L’ordine cronologico delle cose non viene rispettato, confondendo uno spettatore spiazzato dall’assenza di punti di riferimento.
Ciò che convince maggiormente del film è la sua regia “vecchio stile” che non si sofferma sul creare spettacolarità visiva fine a sé stessa, ma che al contrario cerca di veicolare messaggi subliminali. Questo grazie a inquadrature e composizioni che raccontano tanto degli stati d’animo dei personaggi. Non è una scontato al giorno d’oggi trovare una regia che accompagna i personaggi anziché sovrastarli. Bonello fa Cinema con la C maiuscola sotto questo aspetto.
Quello che convince meno dell’opera sono le simbologie ricorrenti: una bambola e un piccione, i cui significati sono fin troppo alla luce del sole, rovinando, seppur di poco, l’esperienza suggestiva che caratterizza il resto del racconto.
La bête si regge su un’enorme allegoria che rappresenta la poliedricità della Settima Arte. Il personaggio interpretato dalla Seydoux in una delle linee temporali è un’attrice esordiente che si trasferisce in California in cerca di fortuna, à la Mulholland Drive di Lynch. Questo elemento è un indizio da tenere a mente come fosse un post-it colorato.
L’alternarsi di vite e momenti temporali/storici distanti tra loro mescola in un certo senso i generi cinematografici. Nel concreto ogni atto del film è un genere a sé, dal dramma di palazzo in costume al thriller, passando per il sentimentale e la fantascienza.
L’immagine d’apertura del film, è a sostegno di questa tesi in un certo senso. Il green screen mostrato nella scena in questione è già una dichiarazione d’intenti.
La parete verde può essere sostituita con tutto, per creare uno sfondo alterativo, artefatto. La bête è riassumibile in questo concetto: è un green screen di 150 minuti, tutto cambia in continuazione, tranne gli interpreti.
