Dopo più di dieci anni, con I’m still here, Walter Salles torna a girare un lungometraggio di finzione, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. A questo punto, ora che le carte sono scoperte, la domanda sorge spontanea: perché tornare, se questi erano i presupposti?
Il film è ambientato a Rio de Janeiro nel 1970, in piena Quinta Repubblica Brasiliana, una dittatura militare. Si tratta di anno cruciale per la società brasiliana, in cui il regime iniziò a intensificare i rapimenti dei dissidenti di sinistra. Protagonista di uno di questi sequestri di persona, l’ex deputato laburista Rubens Paiva, rapito da alcuni uomini del regime in casa propria.
Il film di Salles analizza il rapimento Paiva dal punto di vista di sua moglie, ritrovatasi d’un tratto senza un riferimento, amoroso, economico e lavorativo, una volta rapito l’onorevole. Una famiglia numerosa da mantenere, una lussuosa villa a due passi da Copacabana.
L’opera di Salles è protagonista di una prima ora di alto livello, dettata da un racconto della vita lenta, della quotidianità della famiglia Paiva nei giorni che precedono la deportazione. Quella spontaneità, risulta quasi documentaristica, culla gli spettatori di scena in scena, come se stesse sfogliando un enorme raccoglitore di istantanee in movimento.
La memoria visiva, in I’m still here è centrale. I tre momenti storici del racconto (1970, 1996 e 2014) sono chiusi dallo scatto di un ritratto di famiglia. Quasi a voler sottolineare come non ci sia stato il tempo di costruire gli ultimi ricordi familiari con il padre assassinato dalla giunta di Emilio Garrastazu Médici.
Le ore successive al rapimento, con gli agenti in borghese rinchiusi in casa con la famiglia di Paiva, chiudendo ogni finestra sino a escludere la luce naturale, sa tanto di emulazione di una camera oscura, in cui però, generare immagini è impossibile.
Purtroppo però, per quanto gli stimoli non manchino, il regista brasiliano omette dal principio al termine dell’opera un punto di vista sul momento storico. Oltre a condannare con serenità (il minimo sindacale) la Quinta Repubblica. La messa in scena, anche nei suoi passaggi più cruenti, preferisce girare attorno ai concetti, piuttosto che aggiungerne di nuovi, proponendo una variante al dibattito storico in merito ai regimi militare sudamericani del secondo dopoguerra.
I’m still here diventa estenuante, quasi ossessivo, nel mostrare per sessanta minuti la vita di una famiglia di piccole donne, che hanno bisogno di andare avanti, trovare il modo di sopravvivere senza un patriarca. Il tutto però, lascia associare le immagini a un solo (misero) ragionamento. Salles sembra voler intendere soltanto che il dramma umano della famiglia vittima del regime, stia nel dover abbandonare felicità, tasche gonfie e borghesia.
Non che si voglia imputare al regista di I’m still here una superficialità di fondo. Guardare al ventennio nero della storia brasiliana con cotanta passività, può condurre gli spettatori a interpretazioni dure.
Questo è quanto.