Poche settimane fa, Luca Guadagnino aveva definito Queer il suo film più personale: adattare per il grande schermo il romanzo omonimo di William S. Burroughs – il ribelle della Beat Generation– è il sogno di una vita.
Oltre a essere il suo lavoro più personale, è anche il suo più riuscito sinora, rasenta il capolavoro e si candida al premio più importante del palmares, alla Mostra del Cinema di Venezia.
Queer è diviso in tre capitoli e un epilogo. Il primo è ambientato a Città del Messico negli anni ’50. William Lee (Daniel Craig) interpreta un affascinante scapolo in cerca di avventure sessuali con uomini più giovani di lui. Lee ricorda il disagiato Michele Apicella interpretato da Nanni Moretti in Bianca: impossibilitato a trovare il proprio posto nel mondo, sessuofobo e misantropico.
L’ex-James Bond qui dà prova di grande audacia, mettendo il proprio corpo, oggetto di sessualizzazione da quindici anni a questa parte, a disposizione di un racconto su una frangia di sessualità ritenuta ambigua. La scena del primo bacio tra i due amanti (non entriamo nel dettaglio) è un’autentica immagine di rottura dello stereotipico sex symbol etero.
L’incontro con Eugene (uno stupefacente Drew Starkey, che vincerà il Premio Mastroianni) porterà Lee a credere di poter pretendere qualcosa di duraturo, stabile e serio da un rapporto proibito. Se nel romanzo di Burroughs il termine “Queer” assumeva paradossalmente un significato più vicino a quello odierno (“non etero” e/o “non cis”), nel film di Guadagnino il termine torna ad avere un’accezione dispregiativa, venendo infatti tradotto come “frocio” nei sottotitoli italiani.
Questo perché l’opera titanica di Luca Guadagnino tripartisce la narrazione in tre contenitori tematici, tre atti, discordanti tra loro, nella forma. Il primo, riguarda il rapporto di Lee con la sessualità e l’incontro stravolgente con Eugene. Eugene è il tipico “bi-curioso”, un ragazzo che preferisce relazioni etero, sebbene provi interesse nello sperimentare rapporti “homo”. L’ambiguità del partner terrorizza Lee, al punto da intraprendere un viaggio in Sudamerica per assumere un allucinogeno in grado di stimolare poteri telepatici. Così da poter leggere l’animo del suo amante, trovare una risposta oggettiva e il film, diventa un racconto d’avventura.
Nel terzo atto invece, i due corpi ormai frastagliati iniziano a fondersi, mentre le menti imparano a fraseggiare tra loro. Queer a questo punto si converte al body horror, alla riflessione sulla compatibilità dei corpi, con una sequenza coreografica mozzafiato.
Una volta “aperta la porta”, buttata giù la barriera che separa i due animi, non si torna indietro. È così per Lee, come per il regista del film. L’epilogo struggente, si rifà al retaggio surrealista, con un rimando esplicito all’Orfeo di Jean Cocteau.
Il mastodontico lavoro di Guadagnino mette al mondo un racconto incentrato sulla ricerca di un proprio posto nel mondo, come romanzo di formazione “in tarda età”, per via del suo protagonista. Lee, che tra i due della coppia è il “queer” dichiarato, intraprende un viaggio alla fine del mondo pur di scoprire se ci sarà mai un posto per quelli come lui, se il destino riserverà mai loro un briciolo di dignità umana, di accettazione.
La risposta è nell’epilogo, quando Queer smette di ragionare dialetticamente e inizia a parlare solo per simbologie. Quando Queer, si fa capolavoro.