C’era evidentemente grande curiosità circa l’atteso ritorno alla regia di Kathryn Bigelow, ben otto anni dopo il bellissimo Detroit. E non si può dire che le aspettative siano state disattese.
Il suo nuovo film, in concorso a Venezia 82, è A House of Dynamite e riflette con un’inusitata dose di cinismo e apocalisse sulla possibilità di una catastrofe nucleare. Cosa succederebbe, infatti, se il governo statunitense dovesse essere chiamato a scongiurare l’attacco di un missile atomico apparso improvvisamente sui radar e diretto verso Chicago, tutto nell’arco di appena venti minuti?
È questa la storia che il film racconta attraverso tre punti di vista: la Situation Room della Casa Bianca (guidata da un’intensa Rebecca Ferguson, seppur con poco screentime), una base militare sita in Alaska e quello del Presidente americano in persona (interpretato da un ironico Idris Elba). Questi tre scenari (introdotti da titoli tragicamente altisonanti e da insensate scene bucoliche) non si alternano mai, ma sono presentati uno alla volta con la conseguenza di far ripartire il racconto dall’inizio ogni volta che la storia raggiunge il suo climax (la scadenza dei venti minuti a disposizione), condannando sadicamente lo spettatore a una situazione di tensione e paranoia costante.
Ciò che intende dimostrare la regista è che di fronte a una tale minaccia nessuno sarebbe pronto, né professionalmente (i tre reparti non riescono mai a comunicare davvero, preferendo scaricare sugli altri le responsabilità decisionali), né emotivamente. La sceneggiatura di Noah Oppenheim – purtroppo abbastanza dozzinale nella descrizione dei caratteri, ma dotata almeno di un buon piglio ironico e di un’appropriata capacità espositiva (il film è pieno di acronimi, termini e procedure tecniche) – sbeffeggia continuamente la maggior parte dei funzionari governativi coinvolti, dipingendoli come degli incapaci in preda al panico (si veda la rappresentazione del Presidente, stanco e vanesio).
Attraverso la magniloquenza tecnologica del dispositivo cinematografico, in particolare il rutilante sound design e le nervose zoomate, Bigelow costruisce uno spettacolo della paura fornendo alla domanda di cui sopra una sola risposta possibile: l’apocalisse a cui il mondo sembrerebbe condannato. E la trovata conclusiva del non-finale (in linea con le forme narrative che dominano le piattaforme streaming come Netflix, che ha prodotto il film) è l’ulteriore cinepugno allo spettatore, ormai sprofondato completamente nel baratro pessimista con cui la grande regista di Zero Dark Thirty, ancora una volta, si interroga brillantemente su un futuro che è già presente.












