Luca Guadagnino torna a Venezia un anno dopo Queer, (forse il suo capolavoro) e lo fa per la prima volta fuori concorso. After The Hunt (dopo la caccia, sì, ma quale? Quella di un predatore sessuale?) vede nel cast un’inedita Julia Roberts nei panni di una docente di filosofia presso l’università di Yale dover affrontare un controverso caso di sexual harrassment, aggressione sessuale.
Andrew Garfield interpreta il suo assistente, accusato da una promettente studentessa (Ayo Edebiri) di averla molestata sessualmente al termine di una cena a casa della Roberts.
Non giriamoci intorno: After The Hunt entra con violenza (proprio come il fragoroso personaggio di Garfield) nel dibattito contemporaneo sul Me Too cinematografico, come fece, sempre qui a Venezia, Tar di Todd Field. Guadagnino racconta un contesto intellettuale, annerito dalla ricerca empirica di una verità impossibile. Il cuore nero del racconto forse, è la filosofia stessa.
Perché Guadagnino è negli ultimi anni uno degli autori più legati al concetto di visceralità, inteso in declinazioni body horror (Bones and All, Queer) piuttosto che erotiche (Challengers). Paradossalmente, il suo film più interessato al presente, portabandiera di un orrore meno astratto di quello delle opere precedenti – dunque più tangibile – è all’atto pratico quello più freddo, in termini carnali.
Da After The Hunt ci saremmo tutti aspettati una buona dose di sequenza caratterizzate da assoluta violenza, fisica, visiva, acustica. Al contrario, la tensione nel film è data unicamente dal costante dialogo, ossessivo, strabordante nei modi, tra personaggi, immagini, concetti e luoghi comuni.
Il film di Guadagnino si presenta al pubblico della Mostra del Cinema senza filtri: è un’opera discordante all’interno del contesto finto-moralista della Hollywood post-Me Too, nient’altro che una controversia lunga centoquaranta minuti. La sua grandezza risiede in questa arroganza.
L’autore palermitano abolisce il concetto stesso di morale, ribaltando come un calzino ogni forma di ideologia contemporanea (e non). Da quella woke a quella neo-femminista, passando per un conflitto generazionale cotto direttamente nel tritolo: dinamite pura, e l’incendio che ne deriverà sarà indomabile.
A Luca Guadagnino non interessa prendere posizione, nell’accezione “da tifoserie” tipica del nostro confusissimo presente. Al contrario, sceglie di spalare letame su ognuno di questi archetipi della contemporaneità.
Le conclusioni, la risoluzione del thriller, non interessano al regista, come nei drammi esistenzialisti della maturità di Antonioni. L’unico interesse che ha è meramente legato alla ricerca di un opinionismo da trash tv (o social network) dei più beceri, come a voler seppellire i suoi personaggi sotto un cumulo di becerume.
In fine, la verità, invocata nell’incipit del film dai protagonisti in un sofisticatissimo dibattito sulla filosofia di Kierkgaard, svanisce dalla ricerca morale del film, minuto dopo minuto, al passo dello sgonfiarsi della morale stessa dei protagonisti.
Il Guadagnino più freddo e intellettuale, è forse, paradossalmente, quello più necessario al momento.












