Il ritorno di László Nemes era atteso con uno speranzoso interesse (la sua opera prima Il figlio di Saul vinse l’Oscar per il Miglior Film Straniero nel 2016) e un’altrettanta dose di timore recondito (l’inconsistente film successivo Tramonto deluse e annoiò chi lo vide in anteprima alla Mostra di Venezia nel 2018). Foriero di tali premesse, giunge a Venezia 82 il suo terzo lungometraggio Orphan, ambientato a Budapest nel 1957 e che narra la storia di Andor, un ragazzino ebreo cresciuto dalla madre con narrazioni idealizzate sul padre defunto, costretto ad affrontare l’arrivo in casa di un uomo brutale che afferma di essere il suo vero padre. Dal punto di vista tematico, l’intento è quello di riflettere sulla capacità del Potere politico e sociale (in questo caso quello della nuova Ungheria del dopoguerra) di oscurare una determinata cultura (quella ebraica) fino alla sua netta cancellazione allo scopo di produrre un senso di unità culturale nazionale.
Il cinema del regista ungherese può dirsi effettivamente formalista, nel senso che nei suoi film il modo in cui le storie vengono raccontate assume più importanza delle storie stesse. È ciò che avviene anche con questo nuovo film, sebbene sia formalmente ben più controllato e povero dei precedenti, a dimostrazione della volontà di espandere – per quanto possibile, visto il ritmo non particolarmente incalzante e brillante del montaggio – il pubblico di riferimento. Il risultato lascia molto a desiderare: non convincono né le numerose e quantomai stantie metafore visive di cui il film è denso, né lo sviluppo della trama, limitato da frequenti cortocircuiti logici e imprigionato in sterili ammiccamenti al cinema esteuropeo del dopoguerra e a quello neorealista, in particolare quello di Rossellini con Germania anno zero il quale, anziché un modello a cui ispirarsi, resta solo un mero contenitore di elementi visivi e narrativi a cui attingere, senza neppure l’ardire o la capacità di riformularli criticamente. Ugualmente negativa è la scelta di casting relativa all’attore-bambino che interpreta il protagonista; la poca espressività ed empatia di Bojtorján Barábas, infatti, non gli consentono di reggere sulle spalle un film tanto (e decisamente troppo) lungo.
Il nuovo film di Nemes, perso tra il virtuosismo formale e l’inconsistenza figurativa e tematica, sembra dunque un ulteriore tassello di una filmografia – seppur ancora breve – compatta nelle intenzioni e negli immaginari frequentati (la storia dell’Ungheria nel corso del Novecento), ma latitante di un discorso linguistico – in potenza molto caro al regista, in quanto evidente formalista – sul mezzo cinematografico e al suo rapporto con la rappresentazione della Storia puntuale e veramente personale. Allo stesso tempo, rifuggendo momentaneamente la lettura autorialista – che comunque appare opportuna –, Orphan risulta scadente anche rispetto all’eventuale (forse taciuta) intenzione di realizzare e poi appartenere al più ampio affresco di un cinema compiutamente nazionale.












