Nella giornata del 31 agosto è sbarcato al Lido di Venezia, fuori concorso, il mediometraggio di Wes Anderson The wonderful story of Henry Sugar, prodotto da Netflix. Al netto della durata di soli 40 minuti Anderson è riuscito ad assemblare un cast di tutto rispetto, che vede protagonisti Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes, Ben Kingsley e Dev Patel.
L’opera, tratta dal racconto omonimo di Roald Dahl, è una presa per i fondelli senza precedenti. Anche uno spettatore non avvezzo all’analisi critica sarebbe in grado di mettere in evidenza l’inganno in pochi minuti con ogni probabilità.
Tenere gli occhi aperti durate il film è facoltativo. Basterebbe ascoltare la sola traccia audio relativa al dialogo per ricevere tutte le informazioni essenziali del racconto.
L’intera durata del film si regge sull’enunciazione di descrizioni incessanti raccontati in prima persona dagli stessi protagonisti, che fungono sia da personaggi che da narratori delle proprie disavventure.
Sostanzialmente, Anderson propone in tutti i sensi un audiolibro tratto dal racconto di Dahl, che non ha nulla a che vedere col cinema, in nessuna declinazione, per approccio alla scrittura e per incapacità di declinazione visiva dei temi trattati.
La messa in scena del mediometraggio porta avanti la tradizione visiva ossessivo-compulsiva che caratterizza i film di Wes Anderson da un decennio a questa parte. Composizioni del quadro simmetriche a tutti i costi, grana da pellicola 16mm, uso di colori pastello, formato 4:3.
Anderson produce ormai da anni opere che, visivamente, sembrano parodiare di volta in volta i propri predecessori, in una ricerca della pulizia visiva estrema che sfocia nel delirio di onnipotenza. I film di Anderson sono per lo più insieme di francobolli in movimento, che molto spesso si dimenticano anche, banalmente, di raccontare qualcosa alla fine della fiera.
The wonderful story of Henry Sugar è un buco nell’acqua, soprattutto riguardando alle due opere precedenti del cineasta texano, L’isola dei cani e The French Dispatch. Quest’ultimo in particolare sembrava aver trovato il giusto punto d’incontro tra l’estetica vintage e la narrazione malinconica tipica dei lavori di Anderson. Il film appena presentato a Venezia ha a malapena senso di essere considerato tale. Sarebbe superfluo cercare di spendere altre parole.