“Ci sono dei film per i quali vale la pena uscire di casa”. Lo ha detto Piefrancesco Favino da Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, sul canale Nove. L’occasione era la promozione, insieme ad Adriano Giannini, di “Adagio”, il nuovo film di Stefano Sollima. Una storia che chiude la trilogia della Roma criminale.
L’attore romano, reduce dal successo del film “Comandante” di Edoardo De Angelis, si riferiva a “C’è ancora domani”, il film con cui Paola Cortellesi, alla prima prova da regista, ha sbaragliato il botteghino e a “Cento domeniche”, diretto e interpretato da Antonio Albanese.

l cinema civile piace agli italiani sovrastati dalla realtà
È una stagione felice per il cinema italiano, ha ragione Favino. Soprattutto se si guarda la calorosa accoglienza riservata al film della Cortellesi, uscito nelle sale in un momento drammatico per i femminicidi in Italia. Ma non è il solo. A far tornare il pubblico in sala è il cinema civile e d’autore, un neorealismo italiano redivivo che sembra particolarmente apprezzato dagli italiani. Come se la realtà che ci sovrasta, tra violenza sulle donne, perdita di dignità del lavoro, impoverimento della classe media, avesse preso il sopravvento sulla fiction nei gusti del pubblico. E, per fortuna, è rinato un cinema pronto a raccontare e denunciare questa realtà.
Così “Palazzina Laf”, diretto e interpretato da Michele Riondino, anche lui al debutto come regista. Tratta dal libro “Fumo sulla città” di Alessandro Leogrande, purtroppo scomparso durante la lavorazione del film, la pellicola è ambientata nell’Ilva di Taranto e racconta uno dei casi di mobbing più odiosi del nostro Paese.
Il film di Albanese come una pellicola di Ken Loach
E poi c’è “Cento domeniche”, di e con un superbo Antonio Albanese nei panni di Antonio Riva, un operaio in prepensionamento che si arrangia con lavoretti in nero. Una madre anziana da accudire, una figlia in procinto di sposarsi, un’amante ricca e spregiudicata. E il nugolo di amici del torneo di bocce, il massimo dello svago di una sonnolenta cittadina.
Nella tranquilla monotonia di una vita senza scossoni, arriva la tragedia: la spietatezza del sistema finanziario, da cui Antonio come tanti ingenui risparmiatori s’è fatto ingannare. I sacrifici di una vita, con cui contava di dare alla figlia un bel matrimonio, sono andati in fumo. Antonio ha perso tutto. Da qui si dipana una storia di disperazione e solitudine interiore che nessun affetto riesce a lenire. Un film che ha la poesia delle piccole vite come quella delle storie di Ken Loach. Le stesse slavature del cielo e dei paesaggi, le stesse intimità casalinghe fatte di arredi e oggetti ordinari. L’identica dignità dell’uomo sconfitto eppur tenace.
E proprio per questo nella grandezza del film c’è una nota stonata. Il finale, troppo eclatante e vendicativo. Inverosimile rispetto alla quieta disperazione, che nella realtà è l’unico vero finale per i tanti come Antonio.