È splendido, il nuovo film di Oz Perkins (forse il primo tra i suoi lungometraggi a risultare convincente) Longlegs, uscito lo scorso 30 ottobre in Italia con colpevole ritardo. Maika Monroe, già apprezzata ai tempi di It follows, interpreta Lee Harker, giovane detective in forza all’FBI. Harker scova per caso il rifugio di un uomo connesso a una serie di omicidi commessi nel corso di due decenni dal misterioso serial killer Longlegs (Nicholas Cage).
Per un mistero della fede, da un punto di vista critico il film è stato considerato un horror puro, ed è stato pubblicizzato (sia in patria che all’estero) in quanto tale. Ciononostante, giocando a “sputare le caselle” degli agli elementi di genere, scopriremmo tuttalpiù che Longlegs è un poliziesco. Nello specifico, un poliziesco della frustrazione (come nel caso di Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo).
Il film di Perkins, ci conduce nei meandri più asettici della Rust Belt, la zona dei Grandi Laghi degli US, quella in cui alcune delle declinazioni più aberranti del pensiero trumpiano hanno preso piede. Si tratta, per intenderci, del territorio che ha ispirato il romanzo best-seller Elegia americana, il testo autobiografico col quale J.D. Vance, neo-vicepresidente degli Stati Uniti è salito agli onori di cronaca.
È un territorio perverso, quello raccontato da Longlegs, che non fugge mai da certi presupposti ideologici: il modus operandi del serial killer, che passa attraverso l’ipnosi, come in Cure di Kiyoshi Kurosawa, prevede lo sterminio di alcune famiglie “impure” per i motivi più disparati, come il reddito elevato, o l’appartenenza a una casta, donando loro delle bambole con le fattezze dei propri primogeniti.
La presenza mefistofelica della mente criminale, Longlegs, impreziosisce di dettagli l’atto centrale del film. Conferisce un’aura perturbante a oggetti, luoghi, personaggi. Come se la presenza stessa del serial killer portasse i “peccatori” al riconoscimento di un male di per sé atavico.
Il viaggio di Harker passa attraverso la dimensione temporale del ricordo frammentato. Di tanto in tanto, Perkins propone sequenze di pochi fotogrammi che balenano nella mente della protagonista, come fossero delle istantanee incollate sulle pagine ruvide di un album fotografico.
Forse quello di Longlegs è uno dei finali più evocativi dell’anno. Come se l’autore volesse suggerirci che il suprematismo bianco, incarnato dal personaggio della “missionaria” corrotta dal serial killer, non si fermerà fino a che l’ultima famiglia peccaminosa non verrà estirpata: fino a quando la famiglia afroamericana non verrà disintegrata.