Con Perfect days Wim Wenders torna a riflettere sulla mitologia de Il cielo sopra Berlino, trentacinque anni dopo. Nel capolavoro del 1987 gli angeli, facenti parte del “mondo invisibile”, trascorrono la propria esistenza a osservare le vite degli altri, che poi saremmo noi, facenti parte del “mondo visibile”.
Il mondo visibile è corrotto dai problemi pratici, dal lavoro, dalle barriere fisiche, politiche, ideologiche (il muro) e comunicative. Il mondo invisibile, al contrario, è fatto solo di spiritualità: gli angeli ascoltano le voci delle anime dei mogi abitanti della Berlino divisa.
Tuttavia, gli angeli possono rinunciare alla propria trascendenza e diventare umani, possono scegliere di sentire finalmente qualcosa. Cosa che avviene, di fatto, nel terzo atto de Il cielo sopra Berlino.
Tutte queste regole che Wenders inventa per la sua Berlino sono parte integrante del suo immaginario e Perfect days, volendo speculare su una lettura meta-testuale, sembra rifarsi a pieno a quei dettami.
Il protagonista di Perfect days è Hirayama, abita nel quartiere di Shibuya a Tokyo e lavora per una ditta di pulizie. Nello specifico pulisce bagni pubblici, due in particolare, situati nel cuore del quartiere.
Hirayama è un personaggio speciale perché non indossa gli abiti dell’eroe cinematografico, non ha bisogno di vivere esperienze fuori dal comune per comunicare profondamente col pubblico, anzi. Il primo atto del film è il racconto, passo dopo passo, di una sua giornata tipo. La regia di Wenders nel seguire il suo protagonista è tanto metodica quanto lui, che solca ognuno di quei passi sempre alla stesa maniera, giorno dopo giorno.
Ogni dì Hirayama scatta sempre la stessa fotografia alle foglie di un albero che sovrasta il suo capo e il suo sguardo ogni giorno quando va a pranzare in un tranquillo parco cittadino. Conserva quelle foto, tutte identiche, in degli scatoloni. Scatta fotografie in pellicola, non ha uno smartphone, ascolta solo cassette anni ’60 e ’70, amando Lou Reed e i Velvet Underground, crede persino che Spotify sia un luogo fisico e non una piattaforma.
Eppure, la monotonia di un uomo silenziosissimo, quasi muto, viene interrotta da alcuni incontri, spesso con personaggi femminili, che Hirayama sembra comprendere nell’animo pur senza parlare, ma ascoltando e osservando.
All’inizio del film incontra un bambino, la cui madre è intenta a impartire una ramanzina al figlio, al punto da non vedere nemmeno Hirayama che è proprio davanti a lei a osservare. Il bambino però lo guarda, lo saluta anche con un cenno quando va via scortato dalla madre.
È l’unico a vederlo, proprio come ne Il cielo sopra Berlino i bambini sono gli unici a vedere gli angeli. Hirayama dà l’impressione di essere un ex angelo che ha preferito al dono di udire le anime la realtà, eppure è come se ricordasse qualcosa della sua vita da eminenza mistica, come se riuscisse ancora a sentire la voce interiore di chi osserva.
Entrare nel punto di vista di un “invisibile” è per il pubblico di Perfect days un’esperienza ai limiti della trascendenza che ha inizio e non ha fine. Le luci in sala si riaccendono, il viaggio giunge al termine, ma la vita fuori dalla sala prosegue. In un certo senso il film di Wenders insegna a guardare il mondo con occhi da angelo, con occhi di chi non può essere visto, eppure, ama visceralmente la staticità della vita.