Finalmente l’alba segna il ritorno alla regia per il grande schermo di Saverio Costanzo dopo l’esperienza televisiva de L’amica geniale.
Secondo film italiano in concorso all’80esima Mostra del Cinema di Venezia, l’opera di Costanzo ha gli stessi effetti sul pubblico della bomba di Oppenheimer: quando si sono riaccese le luci in sala metà della platea era morta o quasi.
Costanzo ha avuto a disposizione un budget inverosimile per questo film in costume ambientato a Cinecittà negli anni ’50, a metà tra il sacro e il profano: tra Federico Fellini e Damien Chazelle.
Finalmente l’alba racconta, con una banalissima impostazione narrativa joyceiana, l’avventura di ventiquattr’ore di una ragazza romana che per una pura coincidenza viene catapultata sul set di un Kolossal girato a Roma, entrando nelle grazie delle star che è abituata a vedere sul grande schermo.
La ragazza viene da una famiglia povera ed è promessa in sposa a un carabiniere. Sogna a occhi aperti sperando in futuro migliore, sognando l’emancipazione. Vi ricorda qualcosa? Sì, è praticamente un riciclaggio de La dolce vita e Lo sceicco bianco, entrambi di Fellini. Ci voleva impegno.
Demolire punto per punto il film darebbe vita a un saggio degno dell’interpretazione dei sogni di Freud. Per semplificare, partiamo col dire che il film è infarcito di concetti pseudo-femministi divulgati da un regista uomo, cinquantenne e per giunta figlio d’arte, che cerca con immensa banalità di ricordare al pubblico che le molestie sessuali e gli abusi di potere del patriarcato bianco siano sbagliati!
Chiariamoci, proporre discorsi femministi nelle proprie opere non è un privilegio da riservare unicamente ad autrici donne, anzi. È esilarante vedere un autore fare della retorica spiccia raccontando, sostanzialmente, delle ovvietà, spiattellando in faccia al pubblico situazioni agghiaccianti senza prendere posizioni più estreme. In aggiunta, non si assume neanche la responsabilità di raccontare meglio gli stati d’animo della vittima di molestia e/o abuso.

Tornando al narrativo, Finalmente l’alba si divide in tre grandi atti, scanditi da tre cambi location per l’appunto: il set, un ristorante in centro città e una villa d’epoca fuori Roma, esattamente come in Babylon di Chazelle, uscito nemmeno un anno fa. La villa si fa teatro degli orrori di un’aristocrazia annoiata e sadica. Questo soltanto a parole però.
A fine film infatti un uomo che dà un passaggio in auto alla protagonista afferma che “in quella casa succedono cose orribili”. Concretamente però, nell’ora di film ambientata nella “casa degli orrori” non si assiste mai a qualcosa di scabroso. O almeno, quel poco che viene mostrato non risulta grottesco, non va allo stomaco.
Finalmente l’alba di Saverio Costanzo non si fa prendere sul serio neanche per un istante, e non solo per via del poco spessore drammaturgico di racconto e personaggi. Al principio non funziona l’immaginario creato dall’autore. Per meglio dire, questo immaginario non c’è.
Ora però va affrontato un tema. Perché investire una barca di soldi su un film del genere? O meglio, perché investirli su una sceneggiatura così debole? Sono pochi gli autori che ogni anno ricevono la benedizione dello Spirito Santo per dirigere una pellicola ad alto budget, quindi perché bruciare danaro su un film così fintamente sicuro di sé e così tanto saccente?
Insomma, nel 2023 dovremmo aver capito che copiare Fellini ha un po’ rotto le scatole, per non dire altro. Soprattutto, tra i tanti, perché scimmiottare proprio un autore così personale nel suo approccio allo storytelling? È come se domani mattina iniziassi a raccontare aneddoti di qualcun altro con la pretesa che siano pezzi della mia vita, componenti della mia formazione di uomo. L’emotività non può essere rubato, togliamocelo dalla testa.
Un appello ai produttori: investite su nomi nuovi, su autori che hanno già dimostrato di avere mano, di avere un approccio viscerale alla Settima Arte. Investite sui fratelli D’Innocenzo, su Susanna Nicchiarelli, su Laura Samani, non sulla pigrissima scrittura di filmetti di questo peso, possiamo fare di meglio.
Di questo passo, forse, i film italiani presentati a Venezia torneranno ad avere una propria dignità produttiva, prima che autoriale.