“Non sono un fan di Giorgio Diritti, non ne ho mai fatto mistero. Ma stavolta devo ammettere che mi ha sbalordito.”.
Con queste parole il direttore della Mostra Alberto Barbera aveva presentato Lubo, nuovo e forse ultimo film di Giorgio Diritti, fresco vincitore del David alla miglior regia per Volevo nascondermi, capolavoro assoluto.
Lubo prende il nome del suo protagonista, interpretato da Franz Rogowski, ormai attore feticcio dei film d’essay europei. Lubo è uno jenisch che vive da nomade nella propria carovana insieme alla famiglia. Sono artisti di strada itineranti che vagano per la Svizzera mantenendosi coi pochi spiccioli che guadagnano dalle esibizioni. Ricordano molto gli erranti de Il settimo sigillo di Bergman.
Siamo nel 1939 quando Lubo viene chiamato alle armi a difendere i confini svizzeri alla vigilia del conflitto mondiale. La storia si protrarrà sino al 1959.
Lubo di Diritti è il primo film italiano a superare le tre ore di durata nella sua versione destinata alla sala da quarant’anni a questa parte, il suo predecessore era stato L’albero degli zoccoli di Olmi, Palma d’Oro nel ’78. Per essere gentili, almeno un’ora e mezza di Lubo è del tutto superflua.
Ci mette ben due ore a capire di cosa voglia effettivamente parlare, quando è troppo tardi per sviscerare una tematica. Definire anche in poche righe la trama del film risulta complicato, perché non c’è narrazione fino alla fine.
Lubo lo jenisch si toglie di dosso questi panni dopo cinque minuti di film, diventa prima soldato, poi commerciante, infine detenuto. Tre metamorfosi dettate solo dalla casualità, forse anche dal volersi attenere a una storia vera, sempre che il film sia tratto da un evento realmente accaduto.
Al termine della proiezione alla Mostra, la maggior parte delle discussioni vertevano sul capire cosa andasse effettivamente tagliato dal film per conferirgli una forma più quadrata. Il problema, purtroppo, è che anche tagliando via un’ora di film, Lubo avrebbe comunque un problema, un peccato originale: non ha anima.
L’unico fattore, leggendo tra le righe, che giustifica il concepimento del film è con ogni probabilità una mera fascinazione per il contesto storico della Svizzera durante la guerra e per il mondo jenisch, che, ribadiamolo, viene liquidato in un paio di scene.
È quello il fascino del racconto, l’emarginato, il nomade che si fa borghese, ricorrendo a nefandezze di varie entità. Decine di sequenze sulla sua vita da mercante, piuttosto che sulla sua storia d’amore con la donna delle pulizie di un albergo nel Cantone italiano non fanno altro che appiattire la narrazione.
In molti a Venezia avremmo voluto evitare di demolire Lubo, per rispetto nei confronti del suo autore, ma è inevitabile. Diritti in conferenza stampa ha parlato chiaramente di ritiro, un gran peccato chiudere così una grande carriera.
