A dieci anni dalla pubblicazione su Play Station 3 del capolavoro che fu The Last Of Us, l’adattamento tv arriva su Sky Atlantic e Now. Il nuovo prodotto di punta del colosso televisivo HBO ha vissuto varie peripezie prima di venire al mondo. Era lecito ipotizzare che l’attesa sarebbe stata ripagata con un adattamento di qualità. Un adattamento in grado di far combaciare il gusto dei fan del videogame con quello dei neofiti di The Last Of Us. Ciò che traspare dalla prima puntata andata in onda riporta, purtroppo, una cronaca amara.
L’adattamento che non c’è
Il mondo in cui è ambientato The Last Of Us è quello di una terra consumata da una pandemia: un fungo parassita è in grado di insidiarsi negli uomini, tramutandoli in creature feroci.
In questo contesto seguiamo le avventure di Joel, un superstite che porta addosso le cicatrici di un trauma indelebile e di Ellie, una ragazzina che potrebbe rappresentare un’ancora di salvezza per l’umanità.
Dopo una prima mezz’ora estremamente affascinante, il procedere farraginoso degli eventi inizia a mostrare i primi segni di cedimento. Il “viaggio dell’eroe” compiuto da Joel viene ridotto a una serie di azioni che lo portano da un punto A ad un punto B e dopo un primo punto di svolta narrativo, da un punto B a un punto C.
La trasposizione televisiva si limita a svolgere un compitino assegnatogli, riproponendo ogni elemento visivo e narrativo presente nel videogame.
I sotterfugi iniziano a rivelarsi gradualmente, insidiandosi minuto dopo minuto nel contenuto dell’episodio, proprio come il parassita che ha invaso il mondo della serie.
Questa impostazione crea inevitabilmente uno scisma aprioristico nel pubblico: i neofiti andranno incontro a una storia suggestiva, con un’ambientazione distopica spettrale. Chi invece conosce il videogame verrà condannato a rivivere l’esperienza di gioco, con degli attori in carne e ossa che non possono controllare.
Utilizzo improprio del linguaggio visivo
Analizzando la puntata da un punto di vista estetico, siamo al cospetto di una situazione paradossale.
La macchina da presa segue i protagonisti di spalle. Questo avviene prevalentemente nelle fasi transitorie dedite a scandire i loro spostamenti e durante le sequenze più concitate.
L’intento è proprio quello di emulare la regia adottata dal suo predecessore videoludico, senza lasciar spazio a nuove idee di messa in scena ed escamotages visivi decisamente più conformi al linguaggio cinematografico.
In assoluto la possibilità di esplorare il mondo della serie con un punto di vista diverso viene accantonata in partenza, decidendo, al contrario, di riscaldare il brodo cucinato un paio di giorni prima spacciandolo per una prelibatezza da ristorante stellato.
Le (poche) novità
Al netto di una pigrizia creativa a tratti deplorevole, la seconda pelle di The Last Of Us introduce delle novità che delineano il punto di forza della pietanza.
La prima metà di puntata riflette a lungo sulla vita di Joel e di sua figlia Sarah prima dell’inizio della pandemia. Il carattere vivace della ragazzina impreziosisce il racconto, instaurando immediatamente un rapporto con il pubblico. Il suo punto di vista diventa quello dello spettatore, che si ritrova catapultato in un mondo nuovo accompagnando (metaforicamente) per mano la giovane co-protagonista.
Uno sguardo innocente ci permette di spiare (fuori fuoco) il male annidarsi nelle vite degli altri, prima che il mondo sprofondi nel caos.
L’altra novità eccezionale è presente nei primissimi minuti della serie.
Un’ellissi temporale permette a tre “fantasmi del passato” di avvertire il pubblico, dandogli cognizione di quanto tutto ciò che sta per vedere sia inquietantemente plausibile.
Proprio come il foglietto illustrativo di un medicinale, la scena apre a un possibile scenario che è sì raro, ma verosimile. Una cosa è certa: chi legge le controindicazioni viene messo in soggezione, al netto dello scetticismo.
La coda della scena fantastica sull’origine della pandemia, incarnandola nella natura autodistruttiva dell’essere umano.
Il primo atto della serie tv tratta da The Last Of Us getta una buona base, rimanendo però ancorato alle sue radici: è tempo di camminare con le proprie gambe.












