Dune – Parte due di Denis Villeneuve rappresenta, letteralmente e non, la seconda venuta di Cristo. Onde evitare giri di parole scontate (alle quali arriveremo fra poco), chiariamo all’istante il punto della situazione: il secondo capitolo di Dune è tra i più grandi Kolossal della storia del cinema. Una grande famiglia nella quale possiamo annoverare, senza timore reverenziale, epopee quali Via col vento, Ben-Hur, Titanic e la trilogia de Il Signore degli Anelli targata Peter Jackson.
Dune – Parte due consta di un impianto tecnico senza precedenti, come anche per il primo capitolo, con un’aggiunta che rappresenta il quid in più che mancava al predecessore del 2021: il messaggio, qui da intendere come “verbo”.
Il verbo divino, quello delle veggenti, le Bene Gesserit, che da millenni sono in cerca del Supremo, una donna, o un uomo, in grado di acquisire un potere inimmaginabile. Come sono in cerca di un Messia gli abitanti di Arrakis, i Fremen. Un’antica profezia muoverà le masse, soggiogando anche i più scettici tra i Fremen; una profezia che conduce a un nome, quello di Paul Atreides (Timothée Chalamet).
L’epopea diretta da Denis Villeneuve edifica una gloriosa sovrastruttura sulla già di per sé impeccabile messa in scena: un’analisi antropologica proiettata in un futuro remoto. Cosa tiene in vita una comunità sull’orlo del collasso? Cosa rappresenta l’attaccamento alla vita, per un popolo? Le ombre, ci racconta Villeneuve, sono ciò di cui abbiamo bisogno, per continuare a vivere nella pia speranza dell’assoluzione. La proiezione di un’ombra contro le pareti di una grotta, scegliamo, noi, uomini, di chiamarla Dio.
Scegliamo di lasciarci andare a una candida illusione pur di non affrontare la realtà del nostro fallimento come razza. I fedeli mostrati nel Dune di Denis Villeneuve non sono altro che oppiomani assuefatti dalla Spezia, presente in tutto il pianeta. Come a voler rimandare alla celeberrima frase del “papà” del socialismo. Religione, oppio dei popoli.
L’ambientazione dei due Dune è il 10.196, eppure, gli errori commessi dagli uomini risultano essere i medesimi. Il cercare una via che passa necessariamente attraverso la Guerra Santa, la crociata, ad esempio. Lo stesso Paul Atreides è un colonialista che tenta di insediarsi con rispetto nella comunità Fremen, che lo accetterà come leader, condottiero e infine Messia, Eletto. Paul non combatte gli Harkonnen e l’esercito imperiale sventolando la bandiera del suo popolo, bensì quella della sua casata, Atreides. L’appropriazione culturale, l’abuso e infine lo stupro della cultura ospitante, è un’altra macabra “tradizione” che non viene dimenticato dall’umanità, seppur ottomila anni avanti.
Dune – Parte due non si limita a voler diventare il film da popcorn della stagione. Si assume, al contrario, la responsabilità di portare con sé la maturità filosofica di un Autore con la “a” maiuscola come Denis Villeneuve. Il cineasta canadese lascia ai suoi fedeli (noi spettatori) una testimonianza su ciò di cui abbiamo bisogno come razza, per scampare all’estinzione e al contempo, rispettando quello che è l’interrogativo alla base di ogni suo film: qual è l’eredità che vogliamo lasciare a questo mondo?
Abbiamo bisogno di un’ombra da seguire: Paul Atreides, il Messia di Dune.