Il senso di colpa dei vincitori nei confronti dei vinti, a Hollywood, si è spesso manifestato sottoforma di racconti cinematografici incapaci di rendere giustizia alla tragicità dell’olocausto consumato nei Konzentrationslager. Le eccezioni sono poche, molte delle quali vengono dall’Europa, vedi Il figlio di Saul, oppure il mitologico Va’ e vedi di Elem Klimov, del 1985.
L’ultima opera di Jonathan Glazer, regista di culto di Under the skin (2013), gioca, metatestaualmente, col titolo citato due righe or sono: Va’ e vedi. Glazer interpreta il titolo del film di Klimov come un motto.
Va’ e vedi è un’esortazione, a partire dal titolo, con la quale il suo autore spinge il pubblico a prendere una decisione sin dal principio: una volta varcato il confine, inizierai a percepire sulle tue mani il sangue versato da un popolo.
La Zona d’Interesse, quarant’anni dopo, è concepito come un negativo del motto “va’ e vedi”. Qui concetto viene completato, diventando “va’, vedi e ignora”.
La storia è quella della famiglia del gerarca nazista Rudolf Höss, direttore del lager di Auschwitz. La residenza degli Höss è separata mediante un muro dal campo di lavoro. Una barriera spessa pochi centimetri è l’unico separé che tiene a distanza la quotidianità dall’orrore. Per l’esattezza, il muro è situato sul retro della casa, in giardino.
Il giardino di Hedwig, la “regina di Auschwitz”, moglie del gerarca, non ha un centimetro quadrato che non sia occupato da vasi contenenti piante di ogni sorta, mentre le pareti vengono lentamente tappezzate da rampicanti, un’enorme serra di vetro invece tiene prigionieri alcuni fiorellini innocenti.
Nella narrazione di Jonathan Glazer, ciò che vi è al di là del muro è invisibile agli occhi dello spettatore. Ciononostante si ripercuote sul giardino dell’Eden di casa Hoss. Il figlio maggiore della coppia si diletta a tener segregato nella serra il fratellino soltanto per il gusto di guardarlo frignare, mentre se ne sta seduto ad assistere, compiaciuto. Lo stesso primogenito colleziona dentiere d’oro di ovvia provenienza, probabilmente regalategli dal padre. Alcuni deportati lavorano per loro, consegnando la spesa, il bucato, o tenendo in ordine l’abitacolo.
L’opera maestosa di Jonathan Glazer racconta Auschwitz da un duplice punto di vista, contemporaneo, ma asincrono: con loro e contro di loro (i nazisti). Lo sterminio sta sempre in secondo piano, scenograficamente. Talvolta, l’unica porzione di inquadratura in cui ci è dato “vedere qualcosa”, come fosse uno spioncino, è quella superiore.
I fumi delle locomotive, ad esempio, stanno fisicamente al di sopra della “famiglia del mulino bianco”, sopra le loro teste. L’inferno quindi, viene rappresentato al di sopra, non al di sotto, come a indicare che il confortevole “al di sopra” associato al paradisiaco sia stato contaminato dall’orrore.
Nel cinema horror che funziona, il non-visto spaventa più del visto. Una creatura mostruosa ad esempio, se mostrata per pochi istanti terrorizzerà lo spettatore per tutta la durata del film: è la sua assenza, l’attesa della sua visione, a turbare il pubblico. Interpretandola così, potremmo annoverare La zona d’Interesse tra i migliori horror dell’ultimo decennio.
I suoni dell’inferno, tuttavia, quelli sono udibili. I rumori del campo di concentramento, nel film, sono lievi, spesso di sottofondo a dialoghi, che sono i veri protagonisti dell’azione. Sebbene siano anche qui, in secondo piano, sta allo spettatore assumersi la responsabilità di voler ascoltare i rumori di fondo.
Come Caravaggio lasciava all’occhio dello spettatore il compito di completare il quadro immaginando cosa si celasse nell’ombra dei suoi dipinti, Jonathan Glazer lascia al pubblico quello di decifrare i suoni in secondo piano, aggiungendo “quello che manca” alla pellicola.
Treni che sfrecciano su rotaie arrugginite, fuoco che divampa nelle camere ardenti, fumo che ascende lungo le strette ciminiere, colpi di piccozza che scalfiscono rocce sino a renderle sassolini, urla disumane di chi spreca i propri ultimi fili di voce per implorare pietà. C’è tutto e non c’è niente, oltre il giardino incantato, i cui abitanti vivono all’insegna dell’ignorare che al mondo oltre al bene c’è il male, per parafrasare De André.
Non resta far altro che accordarsi a quanto dichiarato da Alfonso Cuaron: “La Zona d’Interesse è il film più importante del secolo”. Aggiungiamo una domanda, e anche una risposta.
È il film più importante di quale secolo? Del ventesimo secolo, pur essendo arrivato con qualche decennio di ritardo.