Il sequel di Inside Out è prossimo a passare il miliardo di dollari al box office entro la fine del weekend, il che lo renderà, molto probabilmente, il campione d’incassi del 2024 in scioltezza (più per mancanza di una reale concorrenza, ma occhio a Cattivissimo Me 4).
La domanda delle domande resta sempre la stessa: ma il film, com’è? Dimenticabilissimo.
Visivamente parlando, siamo dinanzi a uno dei film Pixar più ispirati di sempre. C’è del marcio nella scrittura: il film è frutto di una corsa contro il tempo (soltanto due anni di produzione), non c’è stato materialmente margine per dedicarsi a un prodotto di qualità. Una tesi portata avanti da molti studiosi del fenomeno Pixar da qualche anno: molte risorse, poco tempo, ergo, lo spazio riservato alla creatività resta sempre più marginale.
La filosofia Pixar si è sempre affermata come risposta a quella (al tempo demodée) dei classici Disney. Il modello produttivo si affidava ciecamente a due comandamenti (o variazioni dei canoni): l’assenza di un vero antagonista (salvo eccezioni, come Monsters & Co.) e l’intransigenza verso la componente musical.
Ora, le canzoni in Inside Out 2 non ci sono, ma non è questo il punto.
Dovremmo focalizzarci su un altro aspetto: Inside Out 2 tradisce lo spirito della Pixar. I sequel delle loro saghe più amate, da Toy Story a Cars, hanno sempre seguito dogmaticamente una regola: i sequel non sono necessari e se devono arrivare, non devono essere condizionati da scadenze serrate.
Inside Out 2 segue lo schema di messa in scena del suo predecessore; la narrazione presenta un’unica variante/elemento di pseudo-rottura: l’inserzione delle nuove emozioni nella sala di controllo.
La pubertà si manifesta nella vita di Riley, la bambina protagonista del primo film. Tuttavia, la pre-adolescenza nel cinema Pixar recente era già stata sviscerata (alla grande) in Red, due anni fa. Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Il fortunatissimo sequel tenta (invano) di raccontare la convivenza tra emozioni polarizzanti, infantili (gioia, rabbia, tristezza) e stati d’animo più sfumati (ansia, imbarazzo, invidia), senza riuscire mai a mettere in scena un corrispettivo credibile tra quello che succede nel mondo interiore (quello delle emozioni) e quello esterno (la realtà di Riley). In più, sentire il bisogno di identificare un antagonista in un film che parla di emozioni “viventi” – e di identificare il nemico nell’ansia – è di un pressappochismo stizzente, volendo essere magnanimi.
La superficialità di scrittura è ciò che condanna Inside Out 2 al fallimento. Abbiamo davvero ancora bisogno di insegnare ai ragazzini al cinema che la realizzazione di un individuo sia tale poiché “la nostra Riley è gentile, solare, studia e segna tanti goal a hockey…”? Non siamo esausti di questa retorica insopportabile dalle corte vedute?
Che fine ha fatto la Pixar?