Maria chiude la trilogia scritta e diretta dal cileno Pablo Larrain dedicata a tre dive del ‘900: Jackie Kennedy, Diana Spencer e Maria Callas. In questo terzo capitolo Larrain torna a riflettere sui paradossi del privilegio, di come le “sue” muse novecentesche siano state relegate ai propri uomini – e allo status di “moglie-trofeo” . In un società, quella occidentale del secondo ‘900, che al di fuori delle loro ville, stava radicalmente mutando.
Maria racconta l’ultima settimana di vita della Primadonna Assoluta: Maria Callas, riportata in vita da una Angelina Jolie mai vista così in parte prima d’ora. La sua interpretazione (fortificata da un incipit di scrittura che definiremmo, con estrema banalità, geniale) si regge su un sottile equilibrio. Un confine invisibile tra struggente autenticità emotiva e melodramma: un ritratto di un’anima morente, che continua a reprimersi.
La Maria Callas di Angelina Jolie lotta con tutta sé stessa per 135 minuti affinché le lacrime non solchino mai le sue gote, o nella speranza che i suoi lamenti non vengano mai uditi dagli altri – e dal pubblico. è possibile notare dall’inizio alla fine del racconto come ogni muscolo che definisce il volto della Callas lotti senza sosta per mantenere una maschera apparentemente perfetta.
La perfezione però, è più fragile del vetro.
Il racconto della vita della Callas, in Maria, passa per le decisioni dello stesso soprano greco, protagonista di un film-nel-film, un documentario intitolato “Gli ultimi sette giorni di Maria Callas”, sul quale ella stessa ha poteri decisionali. I tre atti (o capitoli) che compongono il film vengono introdotti diegeticamente da tre ciak con sopra impressi i titoli di questi ultimi.
Il che dà vita ad alcuni momenti in cui la meta-commedia prende il sopravvento, come ad esempio uno scambio struggente tra il regista e Maria, in cui “La Callas” viene incitata a esibirsi poiché “il pubblico vuole che lei canti in questa parte del film!”.
Il rapporto con l’armatore Aristotele Onassis definisce però, in una serie di flashback, la vera identità della Maria Callas ritratta da Pablo Larrain. Una donna ingombrante anche nel proprio silenzio, capace di ammaliare e portare a sé uomini possessivi. Al punto da trasfigurare Onassis, che nel giro di pochi flashback passa dall’essere un uomo sfacciato e senza scrupoli, a comportarsi come un cucciolo al servizio dell’idolatria per Maria.
Qualche pizzico di didascalismo di troppo, congiunto alla presenza superflua dei due servi della Callas (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher), costituiscono errori grossolani, in un ottimo ritratto che si avvale del cinema stesso, per raccontare l’emancipazione di un’icona del secondo ‘900.
Maria è il racconto trionfale dell’epopea compiuta da Maria Callas, che navigando attraverso il proprio passato è in cerca della sua voce, oramai perduta. Il trionfo però, è quello della forma meta-cinematografia assunta dal film. L’epopea della regina senza voce, è un melodramma struggente.
1977, mentre l’emancipazione di genere avanza, Maria resta immobile, vittima degli spettri del passato, gli spettri del maschio occidentale del ‘900. Il maschio possessivo, incapace di amare, ma soltanto di chiudere dietro una teca di cristallo le proprie donne, proprio come la statua di Ermes mostrata nel film.