Ferzan Ozpetek, sin dal 1997, rifila al pubblico la stessa minestra riscaldata senza mai stufarsi. Lui, non la minestra. I suoi quattordici lungometraggi sono tutti identici tra loro senza però somigliare mai a qualcosa di realistico, o quantomeno verosimile.
Nuovo Olimpo, arriva “straight to streaming” su Netflix e non fa eccezione. Il regista italo-turco traccia la sua storia personale, dagli anni dell’università a Roma a fine anni ’70, fino ad arrivare progressivamente alla sua mezza età e alla conseguente/presunta “maturità artistica”.
Enea e Pietro si innamorano ne 1978 in un cinema monosala d’essay di Roma, Il Nuovo Olimpo, guardando Nella città l’infero di Renato Castellani. Una manifestazione in piazza impedisce loro di vedersi a cena una sera e, completamente a caso, i due non si vedranno più per trent’anni.
Enea diventa un regista affermato, il dialogo attorno ai suoi film è dato solo dallo scandalo che suscita il “tema” ricorrente dell’omosessualità in essi. Convive col compagno Antonio e, ovviamente, vivono nella clausura del loro stato/status di borghesi, trascorrendo l’esistenza sulla terrazza di casa loro. Come tutti i melensi personaggi dei film di Ozpetek. Al contempo Pietro è diventato chirurgo e ha sposato una donna.
Diventa complicato riassumere tutti gli elementi fuori posto in questo tentativo raffazzonato di “otto e mezzo” del regista di Istanbul, perché, che ci crediate o no, sono davvero tanti. A partire dalla scarsa credibilità recitativa dei protagonisti, scritturati più per la loro bellezza che non per le loro doti recitative.

Come non citare poi il pressapochismo della sceneggiatura con cui vengono “aperti” e “chiusi” eventi narrativi nelle storie dei personaggi. In che modo? Tendenzialmente con tre o quattro battute che gli attori sbiascicano anche, senza far capire cosa stiano farneticando. Per fortuna vedere il film a casa permette di poter tornare indietro col telecomando e riascoltare con più attenzione cosa abbiano detto. Nella speranza, sia chiaro, di riuscire a decifrarlo.
Come spesso capita di recente inoltre, la fotografia è sottoesposta, nelle scene notturne si fa fatica a vedere qualcosa. Anche nelle scene diurne, sembra paradossale ma è così, si fa fatica a definire con lo sguardo tutto ciò che vi è in scena. Sembra impossibile? Beh, non per Ozpetek.
Enea, il regista che nel meta-racconto rappresenta Ferzan, regista di successo (commerciale, che parla solo alla borghesia peraltro) ma uomo malinconico, viene dipinto come un dio in terra. Passa tutta la seconda metà del film a propinare alla stampa, agli amici, agli ammiratori frasi puerili da Baci Perugina sulla sua visione della vita.
Francamente ascoltare cosa ha da dire Peppa Pig nell’omonimo cartone animato rischia di essere più interessante e aderente alla realtà.
In un passaggio chiave del racconto Enea, a colloquio con una sala stampa gremita di inviati, riceve una domanda: “Perché mette sempre il TEMA dell’omosessualità nei suoi film?” e la risposta arriva di getto: “Non sono io che ce lo metto, sono gli altri che lo tolgono”.
L’ego smisurato di Ozpetek porta a questo, autocelebrare la propria figura di regista “innovativo” mettendo in bocca al proprio alter-ego una frase tanto ad effetto quanto vuota.
Ed è qui che si chiude il cerchio, dell’improbabile film di Ferzan Ozpetek e di tutta la sua carriera. Credere di essere l’erede di Fellini solo per essere arrivato per primo nel trattare un tema.
Che poi, considerare l’omosessualità un tema (quindi un problema) piuttosto che una necessità che non va spettacolarizzata (ma lasciata crescere con naturalezza), francamente fa accapponare la pelle.