The Holdovers di Alexander Payne è un gioiello incastonato in cinquant’anni di cultura e società americana post-moderna. È ambientato in un collegio maschile nel New England, alla Barton Academy, nelle due settimane di vacanze concesse agli alunni per Natale. Alcuni di loro (pochi) sono costretti a rimanere in collegio per i motivi più disparati. Tanti piccoli orfanelli, vittime delle assenze dei propri genitori, chi per un motivo, chi per un altro.
Per una serie di circostanze però, l’unico studente a rimanere in collegio è Angus, abbandonato dalla madre che è in luna di miele col secondo marito. Ovviamente, un docente è tenuto a supervisionarlo. Costui è il professor Hunham, il docente più detestato dalla classe di Angus. Un Paul Giamatti in stato di grazia, tanto per cambiare.
L’ultimo grande successo di Alexander Payne risaliva al 2013, con Nebraska, apice del suo pensiero (spesso) pessimista. Con The Holdovers inverte nettamente la tendenza, approdando su una spiaggia che al posto della sabbia è composta da soffici nuvole, un luogo sereno.
Ma da cosa, esattamente, ci si deve mettere al sicuro? Da una nazione che manda in Vietnam proletari, poco più che maggiorenni e la maggior parte di essi sono afroamericani. Una nazione governata da anziani conservatori che finanziano una guerra insensata con le vite degli ultimi.
C’è del nullismo in questa premessa, ovviamente. La protagonista femminile, la cuoca del collegio, Mary (Da’Vine Joy Randolph) Lamb (agnello), rimasta anch’ella alla Barton per Natale, è la madre di un soldato che dal Vietnam non ha fatto ritorno.
Gli holdovers sono i reduci. La reduce di guerra qui è la madre, costretta a portare sulle spalle il peso del vuoto, per citare un altro splendido film sulla perdita, Drive my car. Ma sono reduci anche i due protagonisti maschili, Angus e il professor Hunham, entrambi hanno perso il padre, in circostanze tremende.
Angus sta affrontando un momento cruciale della propria crescita come se i genitori li avesse persi entrambi, si sente orfano. Perché essere orfani, nella filosofia di The Holdovers, è uno stato dell’anima, oltre che uno status. Orfano è chi percepisce un vuoto nei pressi del focolare domestico.
Al contempo il professor Hunham ha cinquant’anni, il presente di Angus è ciò che ora per lui equivale al passato. Le loro esistenze iniziano pian piano a trovare punti di contatto, che hanno però la stessa violenza deturpante dei punti di sutura.
Martin Landau sosteneva che “un cattivo attore si sforza di piangere, quando è davanti alla macchina da presa. Un buon attore, al contrario, cerca di non piangere davanti alla cinepresa.”.
Se vogliamo credere alla definizione fornitaci da Landau, Paul Giamatti e Da’Vine Joy Randolph fanno esattamente questo dall’inizio alla fine: trattengono le lacrime.
Appellandoci ai calcoli, Mary ha probabilmente avuto il suo bambino giovanissima, crescendolo però senza una figura paterna, anche qui assente. È stata una ragazza madre. Anche Angus e Hunham sono “ragazzi-madri” se vogliamo. Abbandonati dai propri affetti, il professore prima, l’alunno poi, hanno dovuto crescere il loro bambino interiore, la loro giovinezza, con il solo apporto delle proprie forze.
In una società che pur di non comprendere le nuove generazioni le manda al fronte, al macello, si è reduci, padri, madri e figli di sé stessi. Si è tutto e nulla, orfani e figli di, con la speranza di trovare conforto nella solitudine degli altri.












