Evil does not exist è il primo film di Ryusuke Hamaguchi dopo la vittoria dell’Oscar nel 2022 per Drive my car. La sua nuova pellicola presentata in concorso a Venezia 80 intraprende un percorso inedito fino a questo punto della sua carriera.
Se i precedenti due lavori del regista, gli unici distribuiti in sala in Italia (Il gioco del destino e della fantasia, Drive my car), raccontavano la realtà medio borghese del Giappone presente, Evil does not exist ne fa da controcampo.
Dopo un’introduzione caratterizzata dall’assenza di dialogo e dal solo utilizzo di riprese naturalistiche e scene di vita quotidiana del protagonista, l’opera sembra prendere una piega da film di Ken Loach. Dura, cruda e socialista.
Il protagonista è un uomo sulla cinquantina che lavora come tuttofare per la piccola comunità in cui vive, una cittadina di seimila anime a due ore di auto da Tokyo. La salute della città, area incontaminata dalla mano dell’uomo, viene messa a dura prova dall’arrivo di un gruppo di investitori interessato a costruire un “campeggio glamour” sulla zona che causerebbe danni notevoli all’ambiente.
La critica sociale di Hamaguchi viene palesata a partire dal secondo atto, un lungo dialogo tra il consiglio cittadino e la delegazione del gruppo di investitori, manifesto dell’ignoranza delle compagnie di città nell’avvicinarsi a località rurali in cui la natura, volente o nolente, regna ancora sovrana.

Ma proprio perché non siamo in un film di Loach, duro, crudo e senza speranza, qui il “capitalismo sfrenato” non viene maledetto a priori. Viene data possibilità di redenzione ai suoi rappresentanti. Hamaguchi-san crea un ponte tra due mondi in freddo tra loro, in nome del rispetto per l’equilibrio regolamentato da Madre Natura. Mette al mondo un’opera che è anche un testo critico.
Il vero elemento straordinario di Evil does not exist va letto tra le righe, come sempre. Il maestro del cinema giapponese del presente racconta una storia fuori dal suo tempo, pur restando ancorato all’attualità.
La convivenza amorevole e all’insegna del rispetto tra uomini a natura libera fa parte del tessuto sociale del popolo giapponese da sempre. La rapida industrializzazione dell’arcipelago dopo le due guerre non ha mai intaccato questo fattore, anzi, ha rafforzato le misure di prevenzione verso il danneggiamento del verde.
Il film di Hamaguchi ha ben chiaro in mente questo concetto e lo utilizza come fosse la propria anima. C’è un rispetto verso gli abitanti della natura e i suoi spiriti che è quasi folkloristico, come un timore per il divino. Il lieto fine della storia, la decisione di venire incontro alla natura, non viene ripagato da quest’ultima.
Ma sembra non esserci collera da parte dei personaggi, quando il dramma finale si palesa. Come a voler accettare le scelte del fato. La natura prende e la natura dà, nel film di Hamaguchi, che nelle sue battute finali ribalta tutto, trasformando il realismo di partenza in un’enorme metafora sul rapporto di coesistenza tra l’uomo e il divino.
Il maestro originario di Kawasaki si conferma uno dei più grandi in circolazione, artista e uomo dotato di sensibilità rara, comprende i suoi personaggi, il mondo che li circonda e impianta loro anima e identità.