Brady Corbet stava lavorando a The brutalist dal 2018, subito dopo aver rilasciato il suo secondo lungometraggio, Vox Lux, con Natalie Portman. Sei anni dopo, presenta in concorso alla Mostra di Venezia il suo capolavoro.
Adrien Brody interpreta un architetto ungherese, Laszlo Thot, sopravvissuto al lager di Buchenwald e immigrato clandestinamente negli Stati Uniti, dove viene accolto da suo cugino, un fabbricante di mobili.
Una serie di eventi porterà Laszlo a farsi commissionare la realizzazione di un centro culturale di quasi tremila metri quadri da una famiglia alto-borghese, i Van Buren. Una realizzazione che impiegherà più di due decenni per essere finalizzata.
L’epopea di Corbet, dalla durata epica di 215 minuti (suddivisi in un’overture, due atti da cento minuti, un intervallo da quindici e un breve epilogo) è un affresco della cultura statunitense del dopoguerra. In The brutalist, il cinema della Hollywood Classica sembra ritornare, con un secolo di ritardo. Lo fa per raccontare il dramma del sogno americano e della famelica crescita del materialismo estremo del dopoguerra, analizzandola però da un punto di vista migratorio (e classista).
In un certo senso, azzardando definizioni forti, di rottura, poiché questa è un’opera per cui vale la pena gridare al miracolo, potremmo definire The brutalist il nuovo classico del cinema statunitense.
Il primo atto, giocondo, racconta con spensieratezza la reintegrazione sociale dell’immigrato Thot. Il suo ritorno negli alti ranghi dell’architettura, per mezzo della fiducia riposta nelle sue idee da parte del patriarca dei Van Buren. Il secondo atto dell’opera invece mostra il segmento della vicenda dal momento in cui la copertura della famiglia di potere viene meno. Ciò che sino a quel momento poteva sembrare accoglienza, si rivelerà essere stata tolleranza, mera sopportazione verso l’alieno ebreo.
L’odio raziale viene quasi suggerito essere un male incurabile sedimentato nella cultura statunitense. Gli agnelli, si mostreranno per ciò che sono. “Le volpi si scoprono in pellicceria”, per citare Campo di battaglia di Amelio. In The brutalist, la lezione viene attuata pedissequamente. Il capostipite degli agnelli, l’imprenditore mitomane, guiderà una crociata di disprezzo verso Laszlo e sua moglie in sedia a rotelle (Felicity Jones).
Il centro culturale, col passare degli anni, diventa per Toth un mero edificio destinato alle funzioni religiose, contraddistinto da un enorme vuoto tra le due torri del palazzo che forma una croce. Il centro culturale, volto a mostrare il futuro agli abitanti della contea locale, diventa a poco a poco la tomba che l’architetto edifica per sé stesso. Per il suo popolo e la sua famiglia.
Smascherare l’ipocrisia dello sciocco uomo bianco a stelle e strisce si rivelerà essere l’arma, incisa tra gli spazi vuoti del mausoleo. È lì che l’artista nasconderà per covare una rilegittimazione ideologica nel nido del nemico, nel monumento simbolo del proprio ego nazionalista, dei propri valori repressivi.
Mentre gli agnelli assetati di sangue riposano, The brutalist, il brutalista, sovrasta i loro sogni egemonici, edificando un simbolo di denuncia, un’esaltazione dell’orrore americano. Loro non saranno mai in grado di vederlo. Poiché chi vede veramente, nel capolavoro di Brady Corbet, è chi sogna una vita dignitosa per i propri simili.