La seconda regia di Pietro Castellitto, presentata in concorso a Venezia 80, è un disastro clamoroso.
Due anni fa Castellitto finì su tutti i giornali a causa di una dichiarazione divenuta leggenda: “…crescere a Roma Nord è come farsi la guerra del Vietnam…”. Una classica uscita da ragazzino viziato, nulla di eclatante.
Nel suo Enea tuttavia, ciò che emerge è esattamente una visione del mondo di chi il mondo, quello vero, non l’ha mai visto, se non attraverso una finestra, o perché no, attraverso il vetro di una gigantesca serra casalinga, come viene mostrato nel film.
Nella Roma Nord di Enea ci sono le palme, come in Vietnam, ci sono aerei in volo ogni due per quattro, c’è persino un attentato. È palese che Castellitto volesse mettere in scena una Roma sopra le righe, ironizzando sulla sua gaffe leggendaria. Il paradosso sta nel fatto che il voler rendere ridicoli i personaggi della Roma bene non fa altro che attribuire un alone di ridicolezza all’intera pellicola.
Per centoquindici minuti Castellitto zoppica verso il traguardo finale, optando per soluzioni visive manieristiche, senza mai servire la narrazione ed ampliarla con una regia di ampio respiro.
Pensate a una qualsiasi inquadratura tecnicamente peculiare, dal forte impatto visivo. Ora pensate a un’altra inquadratura difficile da realizzare. Bene. Adesso pensate a tutte quelle che vi vengono in mente. Ognuna di queste è presente in Enea con ogni probabilità. Più che un film risulta una sagra dell’esercizio di stile.
La regia di Pietro Castellitto tuttavia non è l’unico aspetto fine a sé stesso presente nell’opera, no. È l’intero film a essere fine a sé stesso, ogni sequenza finisce per nascere e morire sul colpo, nel giro di qualche minuto. Un accenno di trama inizia a palesarsi dopo più di metà film.
Nel suo delirio di onnipotenza Enea cerca di scimmiottare La grande bellezza, mostrando, almeno nelle intenzioni, la Roma bene e i trentenni figli di papà del nostro presente, con tutta la loro vacuità.
Il film di Sorrentino di cui sopra funziona per una ragione banale quanto efficace: i tediosi personaggi della sua Roma sono consapevoli della propria morte interiore. Al contrario quelli di Castellitto sembrano messi lì a caso, sono solo in balia degli eventi.
Omettendo la sfera della consapevolezza, i noiosissimi borghesi pariolini e pratini mettono in scena una rappresentazione dei vizi di classe spocchiosa e irritante. Il fallimentare, apocalittico, narcolettico Enea, per la regia di Pietro Castellitto, figlio di Sergio che qui recita anche e riceve svariate bestemmie dritte in faccia (letteralmente), è un tentativo goffo di racconto della realtà.
La domanda sorge spontanea, caro regista. Come puoi raccontare una realtà senza viverla? Raperonzolo potrebbe scrivere un saggio impeccabile sulla torre in cui è segregata. Ma non potrebbe mai raccontare con accuratezza quel che capita al di fuori della torre.
Raperonzolo, in questa storia, è proprio Pietro Castellitto, improbabile cineasta.












