Sembra ormai una ricorrenza – o forse una frase fatta – quella di puntualizzare quanto i grandi autori giunti alla propria terza vita, siano in grande spolvero. Basti pensare ai grandi ritorni dell’ultimo anno: Scorsese, Miyazaki, Loach, Coppola. Quando però a tornare è il texano dagli occhi di ghiaccio, il maestro Clint Eastwood col suo Giurato numero 2, è inevitabile scadere in affermazioni ovvie. Dunque, chi vi scrive proverà a non risultare lapalissiano.
Giurato numero 2 è un dramma processuale, incentrato sul delitto, sul femminicidio, di Kendall, ritrovata senza vita sotto un ponte. L’imputato, suo ex compagno, è un noto pusher della zona. Siamo in Georgia. Il “caso Sythe” è relativo a un omicidio del 2021, a un anno esatto dalla notte elettorale che portò Joe Biden alla Casa Bianca. Proprio grazie al miracoloso – e insperato – risultato elettorale ottenuto in Georgia.
Justin Kemp (Nicholas Hoult) è il giurato numero 2, nella giuria popolare composta da dodici elementi, chiamati a giudicare la vita di James Sythe. Con l’inizio del processo, i ricordi di una tragica notte, avvolta dal mistero, cominceranno a riaffiorare, istillando in lui un dubbio.
Clint Eastwood racconta, per l’ennesima volta, i paradossi ideologici e le crisi di valori della bandiera a stelle e strisce. Non giudica James Sythe e Justin Kemp. Giudica gli Stati Uniti, li processa. L’aula di tribunale georgiana è il teatro della crisi d’identità dell’America post-governo Trump. Ogni personaggio di Giurato numero 2 evade continuamente i confini morali e di manovra del proprio ruolo.
Il detective, gioca a fare l’avvocato, mentre l’avvocato difensore, indossa gli abiti dell’investigatore. L’accusa è in realtà una candidata politica. Il giurato è l’assassino, mentre l’imputato è il capro espiatorio. Eastwood rimugina sui farraginosi processi che il potere legislativo mastica faticosamente, omettendo l’etica, favorendo un prospettivismo parziale, spietato, sulla cronaca nera.
Il punto focale di Giurato numero 2 subentra nella sua seconda ora di durata, durante gli scambi serratissimi tra i giurati. Undici contro uno: Kemp contro l’iniquo pensiero comune, giustizialista. Kemp tenta di assolvere sé stesso. Come in un gioco di ruolo difende il suo alter-ego in gioco, l’imputato Sythe. La distanza tangibile tra il giurato e la condanna non viene mai in qualche modo accorciata. Il dramma processuale di Eastwood amplifica le distanze, tra i personaggi e le conseguenze delle loro azioni, come a sottintendere una tendenza dell’uomo postmoderno: la separazione fisica dagli atti, è necessaria, nonché decisiva. La contemporaneità, secondo Eastwood è tiranneggiata dalla distanza, foraggiata dalla virtualità.
L’ultimo, immenso Eastwood, racconta attraverso un processo ai danni di un’identità americana in conflitto con sé stessa, la natura corruttibile delle narrazioni. Le narrazioni sono ciò che portano la vita stessa a delle conclusioni, per quanto, talvolta, tragiche. In questo concetto, risiede la natura stessa del cinema: una materia informe plasmata dallo sguardo critico di uomini e donne, osservatori della natura umana.